Renato Rascel, Il cappotto(1952), regia di Alberto Lattuada

Estate con Mariarosa Mancuso

A Gogol' bastò un cappotto

Mariarosa Mancuso

Nei romanzi non dateci i vostri inciampi quotidiani. Dateci ostacoli, colpi di scena: una trama

Una trama, per favore. Una trama la dovete inventare, voi che riempite il mondo di romanzi. Non penserete davvero di incantare il lettore con esercizi di scrittura, artistica come il pattinaggio: roba che viene a noia prima di arrivare in fondo alla frase “Con questo sublime capolavoro vincerò il Premio Strega, chi non vota per me peste lo colga”. Vale anche per “La mia candidatura è un dovere civile”: il cuore che supera di slancio l’ostacolo, e nessuna stupida obiezione potrà frenarla. Ad esempio, che il mattone bianco con la M nera esce dalla libreria per posarsi sul tavolo del salotto, e lì rimane, mai neanche sfogliato. Mentre la padrona di casa – chiamiamola “Tutti da Fulvia il sabato sera” – spera che gli altri due volumi saranno copertinati con la stessa sobria e bicolore eleganza.

 

Una trama deve esserci, possibilmente più interessante della seguente: “Da piccolo mi hanno fregato il pupazzetto di Zorro, da grande faccio il politico al servizio del popolo”. Primo, perché il regista Sydney Lumet già qualche decennio fa aveva sbeffeggiato l’intreccio chiamandolo “psicologia del pupazzetto”, nella versione “da piccolo gli hanno rubato il giocattolo, da grande fa il serial killer”. Secondo, perché i piccoli inciampi dell’infanzia, come i piccoli inciampi del primo amore, come i piccoli inciampi del matrimonio e della vita genitoriale, e mettiamoci pure i piccoli inciampi della vecchiaia, non interessano perché ognuno ha i suoi, pure in abbondanza. Se non vi chiamate Nicholson Baker – un virtuoso capace di costruire pagine e pagine su una stringa di scarpa rotta senza che la mascella si sloghi in uno sbadiglio – meglio evitare.

 

Serve una trama: l’eroe (si chiama così anche se è un anti-eroe, altra formula cara ai romanzieri privi di coraggio che scambiano la timidezza per il tormento artistico) deve essere a caccia di qualcosa: dal Sacro Graal all’assassino della porta accanto, a voi la scelta. Meglio se in un arco di tempo limitato, il conto alla rovescia un brivido lo dà sempre. Meglio ancora se qualcuno si mette di mezzo per impedirlo: una trama è fatta di ostacoli e colpi di scena. Sensati: il battito d’ali della farfalla amazzonica che causa una tempesta nel laghetto dove l’anti-eroe passeggia con la fidanzata in barchetta, cosicché l’anello di fidanzamento gli cade di mano, e verrà ritrovato anni dopo nella pancia di un pesce con tre occhi, pescato da Greta che si era ritirata da quelle parti a fare l’uncinetto, non vale come trama. E’ solo indice di una mente confusa.

  

La trama serve perché il lettore, arrivato alla fine di una pagina, passi alla successiva: è il compito numero uno del romanziere. Il compito numero due, secondo Nick Hornby, sta nel “tenere la fine lontana dall’inizio”: non significa scrivere storie lunghe, significa “scrivere storie fitte” (anche se, nel suo caso, i colpi di scena possono essere liste, di canzoni o di ragazze). I libri che non hanno una trama – per quanto artisticamente composti e per quanto abilmente costruiti usando come mattoncini le parole più desuete che stavano tranquille nel dizionario (pure loro a fare l’uncinetto come le nonne sagge, senza velleità di girare per il mondo e predicare) – si possono senza danni tagliare a fette. E non è un bel vedere. Li apriamo, leggiamo qualche pagina, li mettiamo giù con l’intenzione di riprenderli, un domani. Sappiamo benissimo che non accadrà. Domani è un altro giorno, le storie sono dappertutto. A Gogol’ per un dramma bastò il cappotto di un impiegato, confezionato con talento e sudore.

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