George Gissing

Estate con Mariarosa Mancuso

I bassifondi della letteratura, dove si scrive per avere successo e fare soldi

Mariarosa Mancuso

Scrivere è un mestiere rischioso. Oggi invece ci si lamenta per lo Strega

I romanzi raccontano il mondo, e nel mondo ci sono lettori e scrittori. Mestiere rischioso, il primo. Basta pensare a Don Chisciotte e a Madame Bovary. Uno finisce pazzo, con la postuma soddisfazione di essere considerato il paladino delle cause giuste e onorevoli (Cervantes era stato chiaro, purtroppo è impossibile prevedere quanto gli orecchianti e il passaparola facciano scempio del personaggio). L’altra non sopravvive all’eccesso di romanticherie – “uccisa dalla cattiva letteratura”, sentenzia Vladimir Nabokov: e quindi, ragazze, smettete di leggere romanzi scritti da mezzecalzette, fanno solo male. Per riconoscerli: son quelli dove la scrittrice somiglia alla protagonista che somiglia alla lettrice, e tutte si vogliono un gran bene, a dispetto di Gustave Flaubert che faceva il suo mestiere con la precisione e la spietatezza di un Dr. House.

 

Mestiere rischioso anche il secondo, esposto all’insuccesso, alla povertà, alla tisi, alla sifilide, alle droghe che danno dipendenza, agli editori che rifiutano anticipi adeguati per sfamare le creature. Balzac racconta una scena esemplare in un suo romanzo (nella “Comédie humaine” sono più di cento, con duemila personaggi dando retta a chi li ha contati, perdonate se non ricordiamo il titolo). L’editore va a casa di uno scrittore per fargli firmare un contratto, ha una cifra in testa come anticipo. L’indirizzo prestigioso gli fa dire “però, non se la passa mica male questo qua”. Quando scopre che non vive al piano nobile, riduce la cifra. Quando scopre che la sua preda non vive neppure ai piani meno nobili, la cifra cala ancora. Sale e sale fino alla pulciosa soffitta, e sogghigna: avrà il manoscritto quasi gratis.

 

Così si mercanteggiava nella Parigi dov’era di moda il feuilleton. E così si mercanteggiava nell’altro paradiso dei romanzieri: la Londra vittoriana, quando un romanzo rispettabile era composto di tre volumi (nelle biblioteche circolanti, erano chiamati “three-decker”: spesso erano scritti da signore di cui abbiamo perso memoria, ma i lettori di allora andavano pazzi). George Gissing racconta i retroscena dell’industria editoriale in “New Grub Street”, uscito nel 1891 e largamente autobiografico: non era un tormentato artista romantico, bensì uno scrittore professionista deciso a mantenersi con il proprio lavoro (non gli andò benissimo).

 

Grub Street era una via di Londra che nel Settecento di Laurence Sterne e Samuel Johnson ospitava gli scribacchini. Producevano testi su commissione, difendendo l’una o l’altra causa, con la speranza di un pronto pagamento. Intanto cercavano di piazzare i frutti del proprio ingegno, sotto forma di poesie o altro. Insomma: i bassifondi della letteratura. Alla fine dell’Ottocento la strada non esisteva più, ma gli aspiranti scrittori erano come sempre pronti a tutto. Tranne qualche duro e puro che resisteva, sperando di farsi meglio notare (“dev’essere pure rimasto al mondo qualcuno che ami la Letteratura Vera”, lamentano gli esclusi al premio Strega, neanche in questo originali).

 

George Gissing racconta le storie intrecciate (compresi gli sposalizi) di Edwin Reardon, scrittore “letterario” privo di lettori. E di Jasper Milvain, che produce “robaccia per questo mondo volgare” (neanche la decadenza dei tempi l’abbiamo inventata noi). Hanno un’aria di famiglia? Certo, somigliano molto a Gwyn Barry e Richard Tull, scrittori rivali in “L’informazione” di Martin Amis. Entrambi i romanzieri tacciono un dettaglio (e sì che loro sono nella giusta posizione per saperlo): sedurre tanti lettori non è peccato.

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