Corsi di scrittura

Mariarosa Mancuso

Il migliore (con esercizi svolti) è in libreria. “I ferri del mestiere”, l’hanno scritto Fruttero & Lucentini

Non importa quel che pensate sui corsi di scrittura: servono, non servono, insegnano le tecniche a gente che non ha storie da raccontare. Ogni scambio di opinioni è soffocato in culla – come un’eventuale rivoluzione italiana – perché ci conosciamo tutti. E tutti quelli che conosciamo hanno almeno una scuola di scrittura in cui insegnare, dalla Scuola Holden in giù (o in su, ognuno ha la sua classifica, dipende in quanti cuccioli-holden si è imbattuto nel corso delle sue letture).

 

Qualsiasi opinione abbiate in materia, il corso migliore si trova in libreria – magari non tutte, ma su Amazon c’è, anche per Kindle, quindi niente scuse. Si intitola “I ferri del mestiere”, lo hanno scritto Fruttero & Lucentini (mi raccomando la “&” da premiata ditta – “Pennivendoli infine!” – ci tenevano). “Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti”, leggiamo sulla copertina bianca, ornata da due mani stilizzate alla Escher che si disegnano.

 

“Involontario”: la magnifica coppia rifuggiva dalla teoria e dai sistemi, son pezzi sparsi in una produzione sterminata di prefazioni, curatele, articoli d’occasione. “Con esercizi svolti”: c’erano storie e storielle, qualcuna scritta sotto pseudonimo, che potevano giudiziosamente accoppiarsi ai pezzi di non fiction. Carlo Fruttero aveva scelto di chiamarsi Charles F. Obstbaum, volgendo in tedesco il suo cognome: “Obstbaum” è l’albero da frutta. Con un giochetto un po’ più complicato, e passando per il latino, il reverendo Charles Lutwidge Dodgson decise in arte di chiamarsi Lewis Carroll.

 

Fruttero & Lucentini pensavano che la parodia fosse materia fondamentale in una scuola di scrittura: non esiste miglior modo per afferrare la qualità che chiamiamo “stile” che provare a rifarla (sì, è una parola che abbiamo giurato di non usare mai, considerato lo scempio che se ne fa nelle recensioni da sbadiglio, ma non la possiamo lasciare al “Diavolo veste Prada” e alla dissertazione sul golfino color “ceruleo”). Detto e fatto: procedono voltando al femminile il più spaventoso racconto di Robert Louis Stevenson, “Dottoressa Jekyll e signora Hyde”. Cambia anche l’epoca, addio mondo vittoriano e benvenuta epoca moderna. La magica pozione, distillata da una dietologa, genera inconfessabili nefandezze: “Rubai gli spiccioli a un mendicante senza gambe, comprai una pelliccia di leopardo, insultai un gruppo di vecchie giamaicane handicappate, calpestai con ferocia una giovane assistente sociale”. (La data in calce dice 1994: la misura del genio è – anche – l’anticipo).

 

Volontariamente, Edgar Allan Poe fece la sua lezione di scrittura, con esercizio svolto dall’allieva un po’ tonta, in una coppia di strepitosi racconti, tecnicamente un’autoparodia (il genio è – anche – trattare il mestieraccio con distacco, e se lo faceva lui potrebbero provarci anche gli esordienti che si presentano all’intervista radio con spocchia da Premio Nobel). “Come si scrive un racconto dell’orrore” è il titolo, si affrontano anche questioni di stile: esiste – dice – uno stile in cui le parole giravoltano così vorticosamente da buttare fumo negli occhi dei critici, che per riflesso condizionato applaudono. L’allieva Zenobia esegue, e aggiunge citazioni: sbagliate, ma fanno sempre fino. La trama, ridotta all’osso, è “mettere il protagonista in un guaio brutto”.

Se scrivere è un mestiere, ragionano Fruttero & Lucentini, gli addetti ogni tanto dovrebbero scioperare. E invece niente: poeti, scrittori e letterati sono l’unica categoria che in Italia non sciopera mai.

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