Margherita Vicario, ha 31 anni, è nata a Roma, fa l'attrice e la cantante. Quest'estate il suo "Mandela" è l'inno delle periferie urbane, gentrificate e non (foto Facebook)

Una vita di rabbia

Simonetta Sciandivasci

Altro che girl power. Margherita Vicario, una carriera tra il cinema e la musica, è il nostro bisogno di sfogarci senza modelli perfetti

"Le donne a volte sì sono scontrose, o forse han voglia di far la pipì”. Che gran bella verità, dolcemente semplificata. Quando Paolo Conte scrisse “Bartali”, con dentro questo verso, non pensava certamente a Margherita Vicario, eppure “scontrosa o che forse ha voglia di far la pipì” è una descrizione quasi perfetta di questa ragazza così leggera, e brava, e seria, e multitalento, che recita, scrive le canzoni che canta (in italiano, francese, greco antico), balla, intrattiene su Instagram, mette d’accordo rapper e trapper e più che genderfluid è agefluid (per chi crede ancor nell’importanza dell’età, diamo comunque le coordinate: ha 31 anni). Tentiamo un breve cv, sempre per orientamento. Dal 2008 a oggi ha fatto molta televisione (“I Cesaroni”, “I Borgia”, “R.I.S.”) e molto cinema (ha avuto una parte anche in “To Rome With Love” di Woody Allen). Il suo primo disco, invece, è uscito nel 2014, si chiamava “Minimal Music”, non era propriamente fulminante, dopotutto lo aveva scritto quando era appena ventiduenne, ma comunque rivelava abbastanza stoffa e infatti era finito candidato al Premio Tenco come Opera Prima. Quest’anno, però, ha tirato fuori tre singoli uno più bello dell’altro – “Romeo”, “Mandela”, “Abauè (Morte di un Trap boy)” – anche piuttosto estivi, ma per un’estate del tutto contestualizzata, nient’affatto ideale, insomma per questa estate precisa che stiamo vivendo, preoccupante, grottesca, fumantina e violenta com’è. Il 12 luglio scorso è uscito “Romeo”, che lei ha scritto e inciso insieme al rapper Speranza, che come lei canta in diverse lingue, italiano, francese e casertano (è cresciuto in Francia, ma dopo anni di vita in quartieri emarginati, è tornato a Caserta, dove dice di trovarsi molto meglio, di poter uscire senza sentirsi in pericolo). Qualche giornale ha scritto che Speranza è “un rapper controverso” e “molto chiacchierato”. In uno dei suoi ultimi concerti, ha invitato il pubblico a brindare, scusandosi per il suo bicchiere d’acqua, ma non poteva interrompere un fioretto. E’ credente, moltissimo, e al Rolling Stone ha detto che “la religione mi serve in tutto”, e che quando ha un problema crede sia voluto da Dio “magari per qualcosa che mi sono meritato”. “Romeo”, che è ovviamente ispirata a Shakespeare, comincia subito con Dio, e fa così: “Atto secondo, scena terza: l’arroganza. Se non conosci la strada, chiedi al prete”. E, qualche verso dopo: “Conosco la strada ma non la meta quella la sa Dio”. E’ una canzone sull’amore, sulla rabbia, sull’interazione, sulla ricerca, sulla fede, e quindi sulla speranza, perché “d’amore non si muore” e perché “Degli arroganti temo solo l’ignoranza”. E l’ignoranza è il punto centrale, il tema, come usa dire a sinistra.

Con Speranza, fervente cattolico che rappa in francese e casertano, lei canta in italiano e greco antico, e cita Shakespeare

La rabbia, in questo pezzo e in molti altri di Margherita Vicario, che il mondo lo osserva parecchio, e senza incanto né disincanto, ha una declinazione particolare, affascinante, e piuttosto unica, almeno se comparata alla rivendicazionismo del girl power corrente che il pop e il rap e la trap femminili (con alcune eccezioni, da Miss Keta e Billie Eilish) stanno musicando in questi anni e soprattutto in questi mesi. Hai sempre la sensazione, anche nei pezzi più cupi, o scontrosi, che Margherita potrebbe semplicemente “aver voglia di far la pipì”, e cioè che sia consapevole che passerà, andrà meglio, e che certi bollori e certe incandescenze impellono perché più che dannosi sono semplicemente urgenti. Come la pipì, di cui ci si libera da sole, in un colpo, e basta trovare il momento, e il posto per farlo – e come la pipì, la scontrosità non va presa troppo sul serio.

 

La sua descrizione perfetta sta in quel verso di Paolo Conte che fa: “Le donne a volte sì sono scontrose o forse han voglia di far la pipì”

Scrive Soraya Chemaly, attivista americana molto impegnata nella promozione della libertà d’espressione femminile, che “le donne sono arrabbiate e non è difficile capire perché”. Spiega, nelle 500 pagine del suo “La rabbia ti fa bella” (Harper Collins) che l’ira dovremmo portarcela a lavoro, pretendere che venga accettata e compresa come quello che realmente è, ovvero una richiesta d’ascolto, una frustrazione non più sopportabile, anziché una nevrosi ancestrale riconducibile alla melodrammaticità delle donne, che si continua comodamente a spacciare, da anni, da sempre, come tratto ontologico del femminile. Lettura, questa, che, scrive Chemaly, ha una ripercussione sanitaria rilevantissima: rispetto agli uomini, le donne hanno il doppio delle probabilità di morire a causa di problemi cardiaci derivati dal fraintendimento e dal sospetto di infondatezza dei loro dolori. In “The Anger Advantage: the surprising benefits of Anger and How it can chance a Woman’s life”, Deborah Cox, Karin Bruckner e Sally Stabb ipotizzano che “molte delle malattie e dei disagi fisici comuni tra le donne non sono altro che rabbia trasformata in forme di sofferenza socialmente accettate”. Oltre a smetterla di filtrare, inghiottire, sopprimere, ingentilire, insomma infuriarvi liberamente e aspettarvi che la cosa sia accolta, persino benedetta come pensionamento di un tabù, per farvi del bene e ristrutturare tutto ciò che la repressione patriarcale ha distrutto dentro di voi, dovreste anche prendere a imprecare. Emma Byrne ci ha scritto un libro sopra: “Swearing is good for you: the amazing science of bad language”. E tanti saluti alla rivoluzione degli educati, quella che in un’intervista di un paio di anni fa all’Huffington Post, Franca Valeri non semplicemente auspicava ma riteneva potesse essere l’unica utile, e realmente possibile. In “Romeo” non ci sono parolacce, sebbene sia, di base, un pezzo rap, e nonostante Shakespeare stesso non disprezzasse la scurrilità (sapeva come dosarla, naturalmente). Ce n’è qualcuna in “Mandela”, altro singolo di Margherita per questa estate impastata senza rimpasto (così ha assicurato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini), che ha la dote di essere ballabile, godibile, rallegrante, pur parlando a muso duro di razzismo, e di una ragazza in giro per strada, di notte, da sola, a Roma, che per chi non ci abita è già una premessa di horror e degrado. E invece no, “Mandela” è un viaggio tra i vicoli, i benzinai, i carabinieri, i barboni, e la guerra che c’è” anche se non sembra”, che Vicario fa a piedi e in macchina, tra i delinquenti della sera dei miracoli di Lucio Dalla, di cui “non bisogna aver paura ma stare un poco attenti”, tra gli immigrati che si sentono fuori posto ma sono gli ultimi romantici rimasti in città, e le mettono la benzina e le chiedono la mancia e certe volte aggiungono “quanto sei bela, ti darei un morso sembri una mela, aggiungo cannella nu poco di zucchero e metto in padela, piacere Mandela”. Quanti Mandela incontriamo, e temiamo senza ragione, anche se siamo di buoni sentimenti, e letture, e posizioni, e chi di noi è capace di cantar loro, mentre acceleriamo per evitare che ci puliscano il cruscotto, come invece fa Vicario, “Sorridi, Mandela, che questo è il tuo posto”, che non è un augurio di fare l’abusivo a vita, ma di restare in questo paese che lo odia e lo condanna a restare nella casta dei miserevoli da commiserare, ma che presto o tardi smetterà di farlo, e lo tratterà come il figlio che è? Ne incontriamo tanti, ci voleva questo pezzo gentile e arrabbiato senza sembrarlo, lieve e non inghiottito, di denuncia poetica, per farceli vedere davvero, e garantirci che la priorità, anche per il girl power, è (dovrebbe essere?) la loro integrazione, l’abbraccio che meritano, il sorriso che dobbiamo offrirgli anche quando ci dicono “ciao bela” e a noi è stato insegnato che potrebbe essere una molestia, anzi che è molestia.

 

A cosa serve la rabbia, se non alla gentilezza?

 

La sua rabbia lieve e gentile ha a cuore il mondo, quella di Miley Cyrus bada invece alla sua rivalutazione e magnificazione

Scrive Soraya Chemaly che “le donne sono arrabbiate” e non è difficile capire perché. Ed è chiaro che il suo richiamo a imbracciare le armi del potere dell’ira sia più accalorante del soft power di Vicario, che tuttavia ci protegge, almeno da questa parte dell’oceano, dalle linee dure, quasi celoduriste, dello star system e del pop americano, tra Angelina Jolie che dice di incoraggiare le figlie a essere malvagie, cattive, pur di prendersi ciò che vogliono e spetta loro, e Miley Cyrus che ha appena pubblicato “Mother’s Doughter”, il singolo del suo ultimo ep, “She is coming”, in cui sostiene di essere: un freak – “Hallelujah!” –, un coccodrillo del Nilo, un piranha, una strega, e di poter quindi fare qualsiasi cosa e guai a fermarla – “don’t fuck with my freedom, I’m nasty, I’m Evil”. Seppellimento definitivo della Hannah Montana, il suo alter ego disneyano, che qualche millennial tardivo lo aveva pur pasciuto. Non parla che di quanto grande, bello, nuovo, rivoluzionario sarà questo potere delle donne, anche se rinnega il genere, e un’intervista a D La Repubblica ha detto chiaramente che vuole farlo per “essere fedele a sé stessa”. Nel video del singolo indossa una tutina di latex con una vagina dentata disegnata sopra perché, pur essendo genderless, lei sta dalla parte dell’ira delle donne, anche se oltre a cantarla e lodarla e invocarla, non si capisce bene cosa intende farne (“fare tutto”, ammetterete, è un po’ generico). La rabbia lieve e gentile e danzante di Vicario, la sua strafottenza, ha a cuore il mondo, quella del girl power pop americano, invece, ha cuore sé stessa, la sua manutenzione e rivalutazione. Vicario è puro poliamore, nel senso più alto, multiculturale e meno sessuale; Cyrus è puro autoerotismo, nel senso più banale e meno politico. Cyrus sembra l’amica newyorchese che Giuliana Ferri, in “Un quarto di donna” (erano gli anni Settanta) riusciva a sopportare a fatica, perché fatica le faceva la sua pretesa di “dare al mondo una misura più morale che fisica”. Vicario, invece, con occhi e fari accesi nella notte, il mondo va in giro a misurarlo, e lo racconta come un orizzonte continuamente in espansione, ed è per questo che la sua rabbia non ristagna, né esplode: si mescola, come le etnie, i suoni, le parole, le strade che si lasciano (ancora) guidare forte. E’ una Margehrita che ama i colori, come quella della canzone di Cocciante (torna sempre tutto, le giuste canzoni fanno sempre tornare tutto).

 

Su Instagram, dove ha quasi 61 mila follower, a Vicario è stato chiesto se “Romeo” sia una canzone sul femminicidio. Lei ha risposto che è una canzone sull’ignoranza, guaio che la preoccupa moltissimo, e che è per lei la mano armata più pericolosa di tutte.

 

Delle ragazze canta quel “pudore che viene da questo tempo in cui si sputa sul dolore e nessuno è mai contento”

Di maschi canta ogni tanto, non come nemici o patriarchi o intossicanti rampicanti parassiti da recidere, ma il più delle volte come spauriti felini che hanno perso le unghie e aguzzato la passivo-aggressività, teneri codardi, merli che insidiano impavidi pettirossi per rubar loro i nidi e godersene la comodità. Di ragazze canta più spesso, non le invoglia a infuocare o infuocarsi, e sa quanto sole e impreparate si sentono, ma pure affamate, contorte, intuitive, vive e soprattutto (soprattutto) pudiche di quel “pudore che dipende da questo tempo, in cui si sputa sul dolore e nessuno è mai contento” (questo verso sta dentro una canzone che si chiama “Per un bacio” e che un bacio chiede).

 

Fate questa prova. Dopo una giornata orrenda, con la pazienza scarica e l’odio che vi monta dentro verso qualsiasi cosa, delfini compresi (specie se maschi, che per quanto sembrino carini sono animali stupratori, sapete?), ascoltate una o due o tre canzoni di Margherita Vicario e cercate di notare se vi fa sentire meglio ballare e cantare “Rallento all’uscita mi ferman due ceffi dagli occhi feroci non capiscono, parlo greco antico, andròs kakòs pràssontos expodòn fìloi, c’hai paura, eh, ho fatto il classico, te a malapena distingui un accento grave da un apostrofo, e pure il francese lo mastico, pure il francese un po’ tossico, we salopard ne touche pas mon bras je’n suis puor toi”. Poi, dite una sfilza di parolacce, possibilmente a un caro amico, amante, parente. E vedete quale delle due cose vi fa stare meglio. Fine esperimento. Così decidiamo se è pratica femminista liberatoria più efficace bestemmiare o cantare “Mandela”. Fateci sapere, dovremo pur distrarci e tenere i nervi saldi in questa lunga crisi di governo che sta arrivando e chissà quando passerà. Almeno speriamo che, dopo, ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno.

 

Intanto sorridiamo, Mandela, ché questo è il nostro posto.

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