Lana Del Rey e il suono del mondo
Cantare “fuck” come se fosse “honey”. Il nuovo album della pop star ipnotica che nella musica cerca la natura nascosta delle cose
Lana Del Rey questo disco non l’aveva in mente. Pigra o in pace calda com’è. Non l’ha scritto per urgenza, o bisogno di dire qualcosa, ma per caso, per l’alchimia di un momento, per una canzone improvvisata che s’è rivelata subito un bozzetto perfetto, una brutta copia senza errori, una prima stesura subito esatta, come quelle di Mozart. “E’ stato come per le storie d’amore, che funzionano meglio quando non le cerchi”, ha detto al New York Times di “Norman Fucking Rockwell”, al telefono, dalla California, posto che trema, e che le assomiglia parecchio di più di New York, posto che pulsa, e dove è nata e ha iniziato a studiare e suonare, andando spesso via e tornando sempre poco per pochissimo, con un nome che non aveva futuro, Lizzy Grant (da quello anagrafico, Elizabeth Wooldrige Grant). Era ancora Lizzy, cioè nessuno, quando Moby la invitò a casa sua e lei gli prese la testa tra le mani e gli disse “You’re the man” e prima che lui potesse ringraziarla per il complimento, gli specificò che intendeva dargli del ricco Wasp del Connecticut. Quando l’ha raccontato al Guardian, qualche tempo fa, Moby (che ha infilato l’aneddoto anche nel suo libro) ha detto di non aver mai capito se lo prendesse in giro o volesse insultarlo.
Il nome se l’è inventato sette anni fa. Ai suoi amici cubani piacque molto, dissero che faceva pensare alla riva del mare
Lizzy il suo Lana Del Rey se l’è inventato non molti anni dopo, poco prima di pubblicare “Born to die”, sette anni fa, mettendo insieme Lana Turner, la sua attrice più amata, e Ford Del Rey, la sua macchina preferita, berlina brasiliana che non viene più prodotta dal 1991. Ai suoi amici cubani che frequentava a Miami piacque molto, le dissero che faceva pensare alla riva del mare, quel posto dove s’attenuano anche le onde più tumultuose, e in questo c’è molto, moltissimo di lei, che in guerra c’è stata parecchio, ma di battagliero non ha niente, almeno niente di visibile.
In Lana Del Rey, d’altronde, non sono evidenti neanche le cose evidenti.
Non si capisce neppure se sia bella. Meglio: quanto sia bella. Se sia più donna o più bambolina. Più procace o più eterea. Ammaliante o assonnata. Incantata o annoiata. Intonata o mesmerica. Aggraziata o goffa. Sbadata o naif. Se cambi, o sia sempre uguale, e se questo dipenda dal trucco, o dall’inquietudine che ha dentro, e che noi le leggiamo negli occhi e lei legge nei nostri.
Questo suo ultimo album è uscito il 30 agosto, una settimana dopo “Lover”, il nuovo di Taylor Swift, la regina delle classifiche mondiali, e a chi le ha fatto notare quanto fosse azzardato tornare sul palco mentre tutto il mondo non ha occhi che per Taylor Swift, domandandole poi se non temesse la concorrenza, ha risposto che non se n’era neanche accorta. E’ una di buone maniere, Lana, quindi non ha detto “ecchissenefrega”, ma un po’ lo ha fatto capire: “In questo periodo sto sempre in spiaggia, non mi accorgo di tante cose”.
E c’è da crederci. Non che viva in un bocciolo, o in una pesca, o in una damigiana di vino, o in una dose di eroina (Rivista Studio qualche tempo fa scrisse che, se fosse stata una droga, Lana Del Rey sarebbe stata eroina). Non è una snob da torre d’avorio. E non è neanche fuori dal tempo, o vintage, come scrivemmo tutti quando arrivò nelle nostre vite, sette anni fa, con il video di “Video Game” che sembrava un filmino di famiglia, e anche un documentario, e un prequel de “Il laureato” e lei era incredibile, Lolita e però non adolescente, acerba e però succosa, a tratti Julia Roberts e a tratti Marilyn Monroe, e la sua voce non assomigliava a niente però era ugualmente familiare, e già allora non si capiva se le venisse tutto all’ultimo momento, o se lavorasse mesi per sembrare che fosse tutto improvvisato, se le ciglia chilometriche fossero finte o se fosse di quelle rare ragazze nate con il rimmel e l’eyeliner, se la voce così sontuosa e scura ce l’avesse di suo o perché registrava appena alzata o perché la imbottissero di auto tune. Sembrava inarrivabile e fatale. E invece non lo era, da quel disco che l’ha consacrata in poi, ha preso a salire sui palchi stonando moltissimo, spesso abbigliata male e senza fronzoli, certe volte senza trucco, senza idee, senza performance, senza messaggi, discorsi, coreografie.
Non si capisce se sia più donna o più bambolina. Ammaliante o assonnata. Incantata o annoiata. Se cambi, o sia sempre uguale
Nell’indimenticabile performance a “Le invasioni barbariche” di Daria Bignardi, nel 2012, cantò scalza, con addosso un vestito che le stava malissimo, di seta blu notte, truccata appena, tremolante, impacciata, piccola, preoccupata. Ci rimanemmo tutti di stucco: ci aspettavamo la diva e ci trovammo davanti una ventenne disorientata e disorientante, ipnotica, con tutto ancora da sbagliare e calibrare. E’ ancora così? In questi sette anni sono successe molte cose, gli hipster che furono il suo primo pubblico sono cresciuti e un po’ si sono stancati delle sofisticazioni ma non l’hanno mai abbandonata, lei ha scritto altri quattro dischi, girato il mondo, amato uomini di poco o nullo richiamo mediatico, spesso perfino poco fotogenici, a eccezione del figlio di Franca Sozzani, Francesco Carrozzini, al seguito del quale l’abbiamo vista in camiciona di lino a Portofino e t-shirt cerulea e pantaloni arrotolati su ciabatte a feste e vernissage, lui impeccabile e lei sempre un po’ sciatta eppure ugualmente in sintonia con lui, che in un video che fece quasi morire molte di noi la guardava, perduto, mangiare la pasta al pesto in quel modo maleducato senza dolo che solo gli americani hanno.
Con gli uomini è come con tutto il resto: difficile da capire. Ha passioni ferme ma interessi transitori, ed è per questo che cresce ma non cambia poi molto. E’ come i grandi scrittori, che sono grandi quando dicono una e una sola cosa nella vita, in tutti i loro libri, sempre la stessa, perché là sta la ricerca che hanno capito di essere chiamati a fare. Spesso le è stato rimproverato di usare sempre le stesse parole nella canzoni (daddy, gold, red dress, beauty queen, heaven, honey) e l’anno scorso il New Yorker la citò come esempio perfetto di come molti musicisti, probabilmente a causa della stimolazione algoritmica dei social network, non riescano più a essere innovativi, e la accusò di aver superato troppo spesso il confine tra l’ispirarsi a qualcun altro e il plagiarlo del tutto. Billie Eilish, il fenomeno pop di quest’anno, si arrabbia molto quando le dicono che è la nuova Lana Del Rey – “ha faticato tanto a rendere unico il suo marchio!” – ed effettivamente sono molto diverse, condividono solo il turbamento che smuovono in chi le ascolta. Billie Eilish fa una ricerca e la restituisce, nella sua musica. In Lana Del Rey, invece, la ricerca è sostituita dalla contemplazione. Ogni suo pezzo, ogni sua nota, non cerca la novità, l’inedito, lo stupore, ma l’intuizione della natura profonda delle cose. E’ pur sempre una ex studentessa di filosofia che si è laureata in metafisica perché “è la disciplina che tenta di colmare il divario tra Dio e scienza”. La mondanità, cioè il quotidiano più nobile, entrano nei suoi testi di rado: le interessa l’escatologia non la fenomenologia. Il mondo l’attraversa e lei ne canta il suono. Solamente così si riesce a pubblicare, nel 2019, un disco che “ho lasciato che si scrivesse da sé”, quando si è reduci da due anni in cui, essenzialmente, s’è fatto poco di più che la musa di uno stilista (Alessandro Michele di Gucci). Solamente così si riesce a essere pop star (ha cantato al matrimonio di Kim Kardashian e Kanye West) senza fare niente di tutto quello che le altre pop star, specie sue coetanee o giù di lì, si impegnano a fare: rinnovare il look, trasformarsi in influencer, sperimentare, stupire, urlare, posizionarsi, militare, predire la vita che verrà.
“Hope is a dangerous thing for a woman”, il secondo pezzo che ha scritto per quest’album pieno più di “fuck” che di “honey”, tuttavia pronunciati come fossero “honey”, è nata così: lei era con il suo produttore, Jack Antonoff, avevano appena tirato giù “Love song” (sesta traccia del disco), in quaranta minuti, e allora lei s’è detta di fare una prova del nove per capire se le stesse bollendo un disco dentro oppure no, e così gli ha chiesto di ascoltarla e registrarla mentre gli cantava alcuni appunti dal suo diario. E’ venuta così bene che ha pensato, ok, facciamo un disco.
Di tirarla dentro al #metoo non c’è stato verso. Camillo Langone lo ha scritto bene: è una californiana dark lady, la “regina del sadcore”
Parla di una ragazza che ha voluto molto, avuto altrettanto, sperato sempre e poi smesso. E’ una canzone che lascia malconci, come faceva anni fa “Summer Sadness”, e che dice qualcosa di importante, forse persino politico, sul costo alto che ha ancora, per le donne, l’esuberanza, e su quanta debolezza non sappiamo più riconoscere perché non vogliamo ammettere – “scrivono che sono felice, sanno che non lo sono, ma nella peggiore delle ipotesi non sono triste, la speranza è una cosa pericolosa per una donna come me”.
Di tirarla dentro al #metoo, Lana Del Rey, non c’è stato verso. Anzi. E non per contrarietà, ma per estraneità. Nel 2015, quando le domandarono se fosse femminista, lei rispose che il femminismo non era un concetto che la interessava e che era molto più affascinata da Tesla e dallo spazio e dalle possibilità intergalattiche che prima o poi l’uomo avrebbe avuto a propria disposizione. La massacrarono. Dovette spiegarsi meglio, e disse quelle cose da cavallo bianco di Napoleone che si devono dire per forza negli ultimi anni, da quando non si può più dire fare baciare senza che qualcuno si senta offeso, per ritrattare o semplicemente non rischiare di giocarsi la carriera. Spiegò che sapeva bene quanto doveva al femminismo, ma che del futuro le interessavano più i pianeti che la questione femminile. In “This is What Makes Us Girl”, dopotutto, cantava che le ragazze (sceme!) non cercano il paradiso, e (sceme, sceme!) mettono al primo posto l’amore (Matilde Serao scrisse lettere su lettere alle sue amiche in cui diceva che non riusciva a essere femminista perché sapeva che le donne avrebbero sempre scelto l’amore come ambizione massima della propria vita). Lei, Lana, è una ragazza più algida, già allora sapeva che la speranza è pericolosa, e “Paradise” se lo fece tatuare sulla mano sinistra, sotto una piccola M che sta per Madeleine, sua nonna, mentre sulla mano destra le si legge “Non fidarti di nessuno”. Il New York Times, che vede endorsement al #metoo ovunque, come Travaglio con Berlusconi dal 2008 al 2011, le ha domandato se in questo nuovo lavoro lei alluda all’hashtag del decennio e se il movimento delle donne contro gli abusi abbia colpito anche il circuito discografico e influenzato la musica. Risposta da californiana che però viene da New York: “Se non l’ha fatto, certamente gli servirebbe”. Fine.
Gli hipster che furono il suo primo pubblico sono cresciuti e un po’ si sono stancati delle sofisticazioni ma non l’hanno mai abbandonata
I contenuti non contano molto: Lana Del Rey non è Taylor Swift, o Beyoncé. Quando Barack Obama venne eletto presidente era a Union Square a festeggiare, e quando Kanye West ha preso ad amoreggiare con Trump, mesi fa, lo ha sgridato, e quando l’hanno accusata di essere filo israeliana e anti palestinese ha soltanto ribattuto di essere neutrale e a Roger Waters dei Pink Floyd che le ha controbattuto che in certi casi la neutralità è fiancheggiamento degli oppressori, ha risposto che capiva cosa intendeva, ma non avrebbe annullato la sua esibizione a Tel Aviv.
Non c’è modo di farla camminare sui tizzoni ardenti, di comprometterla. Difende il suo equilibrio, mantiene la mente sgombra, e lo spirito lieve.
Camillo Langone lo ha scritto bene: è una californiana dark lady, la “regina del sadcore”. In una parola, però, Lana Del Rey non entra. C’è un verso di Battiato, recitato da Sgalambro, che la descrive meravigliosamente, per com’è adesso e com’era sette anni fa – e per l’effetto che fa adesso e faceva allora – ora come allora una donna che attraversata dall’America che naviga a vista ed è un paese che non spera più, perché sa che la speranza è pericolosa, e a questa novità terribile reagisce con violenza. Quel verso di Battiato e Sgalambro fa così: “I soli languidi dei suoi cieli annebbiati hanno per il mio spirito l’incanto dei tuoi occhi quando brillano offuscati”.
Un paio di versi dopo, la canzone fa così: “Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà, il mondo s’addormenta in una calda luce di giacinto e d’oro”. Se c’è un’America che Lana Del Rey sogna in questo disco è proprio un paese che si addormenti in una luce di giacinto e d’oro. Se c’è un’America che Lana Del Rey subisce e che l’ha trapassata trasformandosi nel suono di questo disco è quella che si strazia pur di addormentarsi in quella luce, e nella calma, e nella voluttà, e ha smesso di essere disposta a soffrire e s’è intossicata d’oppiacei e intransigenza.
Antifascismo per definizione