John John Kennedy con la moglie Carolyn Bessette (Foto LaPresse)

John John & George

Michele Masneri

Vent’anni fa moriva il giovane Kennedy. La vita, gli amori e quella sua rivista impossibile che provò a mettere insieme glamour e politica

Il 16 luglio 1999, inabissandosi inopinatamente alla guida di un piccolo aereo da turismo, John Fitzgerald Kennedy Junior, detto John John, portava con sé non solo le aspirazioni di casa e dell’America, due sorelle Bessette (la moglie e la cognata), ma anche una delle riviste più bizzarre che si fossero viste nel Novecento. Kennedy Junior sprofondò come si sa trentottenne verso l’atollo identitario di Martha’s Vineyard. Figlio di JFK e di Jacqueline Kennedy Onassis, esteticamente e tricologicamente avvantaggiato, avrebbe potuto fare la qualunque ma aveva deciso di mettere su una rivista, George. Forse seguendo il vecchio adagio per cui per diventare milionari bisogna nascere miliardari e poi investire in una squadra di calcio, o in un giornale, Kennedy junior, che era stato definito da People “l’uomo più sexy del mondo”, che aveva avuto storie con Madonna e con Daryl Hannah, la sirena di Manhattan e la mantenuta-arredatrice di Wall Street, da erede decise di farsi direttore (c’è da dire che era ancora un’epoca d’oro in cui i giornali davano prestigio e fatturato, e non venivano considerati manufatti radioattivi, rifiutati perfino gratis sul treno).

 

Kennedy, figlio della politica e del glamour, non poté che figliare un giornale che incarnava quel matrimonio. Si buttò nell’avventura nel 1992, convinto dalla campagna presidenziale clintoniana, che apriva gli orizzonti alla politica-spettacolo, con gli strimpelli di sassofono del governatore dell’Arkansas. Era finita la fase della politica come “show business per i brutti”, secondo la definizione di Gore Vidal, parente di mamma e collaboratore del futuro giornale. Adesso anche i belli potevano scegliere tra un posto alla Casa Bianca e un talk-show in prima serata. Oggi che Trump si è preparato con “The Apprentice” e Obama ha firmato un ricco contratto con Netflix (per non parlare della povera Europa che preferisce i comici) è tutto ovvio, ma allora era ancora di là da venire.

  

Sull'ultimo numero di George campeggiava la foto del suo fondatore, il rampollo che volle farsi direttore: con una copertina banale che lui avrebbe certamente disapprovato


 

Come oggi raccontano in vaste accorate retrospettive Esquire e Hollywood Reporter, nonostante la blasonatura non fu facile trovare i finanziatori per un bimestrale che parlasse “di politica a chi non ama la politica”. Kennedy junior allora si mise a studiare. Va a un seminario in un hotel newyorchese, “Starting Your Own Magazine,” dove apprende immediatamente che “si possono fondare giornali che trattino di ogni materia, a parte religione e politica.” Benissimo. Hearst, il colosso dei magazine, rifiuta di produrlo. Tutti gli amici potenti bofonchiano e svicolano. Lui vorrebbe fare un Rolling Stone della politica. “Mio caro, avresti dovuto consultarmi. La politica non si vende in edicola”, dice l’editore di Rolling Stone, amico di famiglia.

  

Si buttò in quell’avventura nel 1992, convinto dalla campagna presidenziale clintoniana, che apriva gli orizzonti alla politica-spettacolo 

Come spesso accade nelle imprese più chic, arriva l’aiuto fondamentale di qualche impresentabile. L’unico a dargli una mano è David Pecker, oggi padrone del National Enquirer trumpiano, quello che pubblica le foto ignude di Jeff Bezos, all’epoca presidente di Hachette Filipacchi, editore di Elle. Una specie di Ciarrapico americano, salvò il nascituro George come il ciociaro Repubblica. Investe 20 milioni eccitato per quanto il marchio kennediano avrebbe attirato lettori e inserzionisti (anche se non gli piaceva il nome: fu valutato l’alternativa CrissCross, a suggerire interazioni tra politica e spettacolo, ma poi sul Post uscì una provvidenziale indiscrezione che dava il George presto nelle edicole, e così George fu). Il nome, racconta Joe Armstrong, consigliere e amico di Jacqueline Kennedy, fu così concepito: “Ero a Martha’s Vineyard con Jackie, e John era in vacanza con Daryl Hannah. A un certo punto lui chiama e dice che mentre stava lì in Vietnam gli è venuto in mente che il giornale dovrà chiamarsi George”.

 

Fecero un road show trionfale per tirar su la pubblicità. Il brand Kennedy si rivelò una calamita per gli inserzionisti (era un’epoca in cui ancora c’erano gli inserzionisti). Vanno a Detroit dove in una scena del più puro Mad Men i boss delle case automobilistiche fanno la fila per incontrare il direttore più sexy del mondo e le segretarie sospirano fuori dalle sale riunioni per intravederlo. Il primo numero fa 500 pagine di pubblicità, sostiene Esquire (ma sembrano un po’ troppe); comunque più del famigerato numero di settembre di Vogue, l’all you can eat dell’inserzione.

 

Tutto è calibrato su una grandeur imperiale-editoriale che oggi stringe il cuore. “Per il primo numero”, ha raccontato l’ex editor Hugo Lindgren a Hollywood Reporter, “presero Gore Vidal per scrivere un saggio su George Washington. Non so se fosse un’idea di Kennedy, ma lui approvò in pieno. Costò una cifra folle, credo venticinquemila dollari dell’epoca. Vidal produsse questo testo in cui diceva che Washington era un disastro su tutti i fronti, terribile come generale, leader politico fallimentare. Non poterono pubblicarlo, su una rivista che si chiamava proprio George. Ma comunque pagarono Vidal fino all’ultimo centesimo”. Vidal e Norman Mailer pare fossero gli unici pagati bene, il resto era tutto un po’ traballante, ma quando le cose si mettevano male Kennedy tirava fuori il libretto degli assegni del JPK, il trust di famiglia (anche per pagare i biglietti del treno agli stagisti. Gli stagisti, oggi giornalisti di successo, lo ricordano come un santino, forse identificandolo con quell’ultima epoca d’oro della carta stampata).

  

Kennedy si divertiva. Sognava forse di fare il presidente, la cosa più vicina a quello che voleva veramente fare, l’attore (la madre glielo impedì)

Per la prima copertina si decide – in riunioni nel loft di Tribeca col fotografo Herb Ritts e la morosa Carolyn Bessette – di mettere Cindy Crawford, supermodel allora all’apice del successo, vestita da George Washington. “E’ perfetta! E’ così americana!”, dicono. Kennedy si alza e telefona a Cindy Crawford. Lei dirà: “Ho accettato perché mi fido di Ritts, ma mi sembrava una cosa strana, vestita da George Washington. Ma che dovevo fare?”. Matt Berman, direttore creativo: “Per il secondo numero si pensò a Robert De Niro vestito da – indovina un po’ – George Washington, con una spada in mano. “Fantastico, passa a casa mia, ho una spada che è perfetta”, dice Kennedy. “Stupendo, sembra una vera spada di George Washington”. “Ma è la spada di George Washington”, dice lui. Era stata donata al padre negli anni della presidenza. Così mi ritrovai in taxi con la spada di George Washington”.

 

Quello delle copertine è un tormentone e insieme una leggenda. Per il numero di settembre 1996, Kennedy chiede a Madonna di trasformarsi in sua madre Jackie. La chiama e la cantante risponde con un fax scritto a mano: “Caro Johnny boy, grazie per avermi chiesto di farti da mamma. Ma non le renderei giustizia. Per prima cosa, non ho sopracciglia abbastanza folte”. Non si sa se la storia sia vera, ma è comunque notevole, anche perché con Madonna lui aveva (o aveva lasciato credere di aver avuto) una storia qualche tempo prima. Ci si orientò verso un’altra strada, sempre rimanendo nell’ambiguità di letto, che pareva la cifra di famiglia. Chiesero a Drew Barrymore di interpretare Marilyn. Come pretesto, i cinquant’anni di Bill Clinton, e dunque cosa c’era di meglio che tirar fuori la vecchia storia dell’Happy Birthday Mr. President del 1962, col famoso vestito cucito addosso. Una scelta un po’ morbosa visto che Marilyn era sempre stata considerata universalmente l’amante di JFK, ma, scrive l’Esquire, in fondo lui non ci credeva tanto a quella roba. Semplicemente, era un’altra storia troppo bella per rovinarla con la verità. E poi: “Tutti campano col gossip sulla mia famiglia, proprio io non dovrei farlo?”. Madonna ritorna un’altra volta su George, come ospite per la rubrica “Se io fossi presidente”, affidata di volta in volta a una celebrità diversa. Lei: “Caccerei dal paese Howard Stern, e vi farei rientrare Roman Polanski”.

  

 

Altre copertine: Barbra Streisand travestita da Betsy Ross, la cucitrice di Philadelphia che fece la prima bandiera americana (lei vestita con dei fiocchettoni e una cuffia tipo casa nella prateria). Non riescono a convincerla. Berman: “Me la passano al telefono e dico salve, sono il direttore creativo, Matt. Lei: Nate? No, Matt con la M. Ah, io Sono Barbra con la B”. Decidono che l’unico modo per convincerla è portarle lì il rampollo nel suo ranch in California. “Passo a prendere Kennedy e andiamo all’aeroporto Kennedy, prendiamo l’aereo fino a Los Angeles: una hostess gli dice: signor Kennedy, mia madre mi ha chiesto come mai non mi sono ancora sposata. Perché non ho ancora incontrato JFK Junior! A Los Angeles ci aspetta una folla di paparazzi che evidentemente erano stati avvertiti da qualcuno. Noleggiamo una macchina e arriviamo fino a Malibu, e John comincia a urlare “c’è qualcunooo”, e poi si apre il cancello su un bellissimo posto su una roccia, e lei era lì che ci aspettava”.

 

Altri animali: “Dovevamo fare una women issue e dico: facciamo una Eva nuda nel giardino dell’Eden. Benissimo. Doveva essere Pamela Anderson. Voliamo a Los Angeles dove viene allestito tutto questo giardino. Ci sono animali veri, tra cui un capretto e un serpente albino. A scattare è Mario Sorrenti. Ma la Anderson ci dà buca. Così chiediamo a Sorrenti: chi potremmo fare a Los Angeles come Eva? Lui, che era fidanzato con Kate Moss, la chiama, e lei dice ok, però non a Los Angeles. A New York. Così torniamo indietro, e lì ricomincia la ricerca di animali e serpenti, e dove lo trovi così un serpente albino?”

  

Fecero un road show trionfale per tirar su la pubblicità. Il brand Kennedy si rivelò una calamita per gli inserzionisti

Celebrity in redazione: Deborah Marcogliese, impiegata: “Venivano tutte queste persone famose con cui potevamo interagire. Io in quel periodo avevo un fidanzato irlandese e un giorno arriva Jerry Adams, il leader dell’Ira, e noi tutti eravamo invitati a prender parte a questi incontri”. “Alla Convention democratica dovevamo fare un piccolo evento per cento persone ma all’improvviso si sparge la voce che saremo lì e tutto il mondo vuole esserci. Oprah Winfrey conferma che ci sarà e vuole un più dieci. Il posto che avevamo scelto non è più abbastanza capiente, chiamiamo il senatore Ted Kennedy (‘lo zio Teddy’), e il sindaco di Chicago fa chiudere al traffico la strada” (una giornalista). Il resto è pura epica kennediana-editoriale: nell’ufficio del direttore, una foto di Mick Jagger in vacanza nel feudo di famiglia a Hyannisport; la redazione che di notte va a pattinare coi rollerblade a Central Park, il cane Venerdì che ogni tanto soggiorna in redazione. Kennedy che compare a sorpresa alle feste degli stagisti, portandosi a braccio la sua bici.

 

Il giornale perfino oggi sembra un po’ bizzarro, con titoli come “Terminator 2000. Il piano di Arnold per aggiustare l’America”, con Schwarzenegger in sella a una grossa moto con parrucca; o “Donne in amore. Le lettere segrete di Eleanor Roosevelt”; “John Kennedy parla di politica con Warren Beatty” e certo, bisogna considerare che essendo la più vasta democrazia del mondo, c’era e c’è tutto un mercato e uno show business acconcio (da noi, non c’erano i riferimenti e i physique du rôle: non si poteva certo mettere Mariotto Segni in coppa a una Harley Davidson, o chiedere a Ornella Muti di vestirsi come Vittoria Leone. Non avrebbe funzionato, non sarebbe stato capito).

 

Per la prima copertina si decide di mettere Cindy Crawford, top model allora all’apice del successo, vestita da George Washington

Kennedy si divertiva. Sognava forse di fare il presidente, la cosa più vicina a quello che voleva veramente fare, l’attore (la madre glielo impedì). Aveva studiato faticosamente Legge, aveva iniziato a lavorare nell’ufficio del procuratore, ma viene bocciato due volte all’esame da avvocato. Ce la fa alla terza. Secondo Armstrong, la madre sosteneva che “non sa che deve fare. E’ lì in ufficio e ieri ha dovuto aprire un fascicolo per qualcuno che aveva rubato un pacchetto di patatine. Potresti parlargli?”. Alla conferenza stampa di lancio del giornale si è appena fidanzato con Carolyne Bessette, un’altra bionda algida, che lavora per Calvin Klein, prima da personal shopper per celebrità poi, visto il talento, come pr. Lei è furba abbastanza da capire che con uno così l’unica strategia è non filarselo – lui la chiede in sposa una prima volta e lei lo rifiuta. Lei ha un moroso improbabile, modello e portiere d’albergo, che tiene in carica per far rosicare lui. Si sposano, e la famiglia Bessette perderà due figlie nell’incidente aereo tremendo.

 

Il lancio del giornale avviene mentre scoppia la loro storia d’amore, i media impazziscono: “Non ricordavo così tanti di voi dal mio esame di avvocato” . Il giornale esce a settembre 1995, prezzo di copertina due dollari e novantacinque. E’ un successo. Vende subito cinquecentomila copie. Loro si sposano nel settembre 1996. Nel 1999 l’incidente. La famiglia Bessette chiederà 20 milioni di danni ai Kennedy (10 milioni a figlia). Più le scuse ufficiali. I Kennedy ne offrono 7. Si chiude a 15. 7,5 milioni per figlia. Senza scuse.

 

George doveva forse servire come trampolino per una carriera politica. Ma Kennedy si appassiona. I colleghi lo descrivono come affabile, lavoratore, professionale. Ha idee precise, non solo un’agenda di indirizzi. In ogni numero scrive un editoriale e intervista una personalità. Kellyanne Conway, la trucida consigliera di Trump e sua campaign manager, quella che ha inventato gli “alternative facts”, faceva la sondaggista a George. “A Kennedy piacevano così tanto i sondaggi”, ha raccontato. “Una volta chiedemmo: preferireste fare il presidente degli Stati Uniti o della vostra azienda? Non ci fu gara, tutti preferivano l’azienda. Questa cosa affascinò molto Kennedy”.

 

Ma anche Trump finì in copertina. Nel 2000 infatti “andammo alla Trump Tower, lui all’epoca era un personaggio patetico, famoso solo per le sue bancarotte; per tutto il tempo del servizio tenne la mano sul culo di Melania, strizzandolo. Kennedy non l’avrebbe mai voluto sul suo giornale”, racconta Berman. Ma JFK junior era già morto, e forse anche un’epoca. Il suo giornale gli sopravvisse due anni e chiuse nel 2001, dopo un cambio di proprietà, un nuovo direttore (che veniva da “Money”), e un rapido declino anche estetico. Sull’ultimo numero campeggiava la foto del suo fondatore, il rampollo che volle farsi direttore: con una copertina banale che lui avrebbe certamente disapprovato.

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