Margaret Atwood, scrittrice e critica letteraria canadese ( LaPresse/PA )

La scrittrice lavora così

Annalena Benini

Joan Didion, Simone De Beauvoir, Dorothy Parker, Margaret Atwood, Marguerite Yourcenar e tutte le altre che hanno fatto la letteratura e si sono messe a nudo con la Paris Review

Da mettere in valigia:

2 gonne

2 maglie o calzamaglie

1 pullover

2 paia di scarpe

Calze

Reggiseno

Camicia da notte, vestaglia, pantofole

Sigarette

Bourbon

Borsa con:

shampoo

spazzolino da denti e dentifricio

sapone

neutrorasoio,

deodorante

aspirina,

sonniferi,

Tampax

crema idratante, cipria, baby oil

 

Da portare a mano:

Copertina di mohair

Macchina da scrivere

2 blocchi per gli appunti e penne

Cartellette

Chiavi di casa

 

Questa lista era fissata con il nastro adesivo all’anta dell’armadio di Joan Didion, negli anni in cui faceva i reportage. Intorno al 1968, nel periodo in cui venne nominata “donna dell’anno” dal Los Angeles Times, e soffriva di fortissime emicranie, vertigini e nausea e il suo referto medico parlava tra le altre cose di “fissazioni ossessivo-compulsive, intellettualizzazione e sotterraneo processo psicotico”.

 

La copertina di mohair serviva per i voli di linea a lunga percorrenza e per gli alberghi in cui era impossibile spegnere l’aria condizionata. Anche il bourbon era per le stanze d’albergo con troppa aria condizionata. E la macchina da scrivere, pesante da portare a mano per una donna a cui tutti hanno detto sempre: sei troppo magra, serviva per l’aeroporto, tornando a casa: l’idea era quella di restituire l’auto a noleggio alla Hertz, fare il check-in, trovare una panchina vuota e cominciare a battere gli appunti della giornata. Joan Didion e il suo leggendario controllo, la coca-cola a colazione e sempre, e il foglietto scritto da sua figlia bambina e ritrovato in garage con “i detti di mamma”. “Lavati i denti, spazzolati i capelli, sta’ zitta sto lavorando”.

 

Il foglietto scritto dalla figlia di Joan Didion con “i detti di mamma”. “Lavati i denti, spazzolati i capelli, sta’ zitta sto lavorando”

La prima volta che la Paris Review la intervistò, nel 1977, quando Joan Didion aveva quarantadue anni e aveva appena pubblicato il suo terzo romanzo, Diglielo da parte mia (in Italia è pubblicata dal Saggiatore), l’intervistatrice le chiese se ci fossero svantaggi nell’essere una donna che scrive. Joan rispose così:

 

“Un uomo che scriveva romanzi aveva un ruolo nel mondo, e poteva giocare quel ruolo e fare tutto quello che voleva lì intorno. Le donne che scrivevano romanzi erano abbastanza spesso percepite come invalide”. Flannery ‘O Connor, ad esempio.

 

Nel 1977 non era più così, o non proprio così, e comunque Joan Didion era la donna dell’anno, con il bourbon in valigia, e diceva: “I vantaggi sono gli stessi degli svantaggi, direi: una certa quantità di resistenza, che fa bene a tutti. Ti tiene sveglio”. Molti anni dopo, nel 2006, parecchi libri, saggi e sceneggiature dopo, e dopo avere perso il marito e la figlia in due anni, Joan Didion venne di nuovo lungamente intervistata dalla Paris Review, e Fandango l’ha inserita nel primo volume di The Paris Review, interviste, insieme a Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Saul Bellow, Truman Capote. Queste interviste costituiscono un genere letterario, e mostrano gli scrittori all’opera, mostrano anche un essere umano in movimento, raccontano una storia e svelano segreti, mettono a nudo l’ossessione del lavoro. E in ognuna di esse è possibile sentire il sollievo degli intervistati: finalmente possono parlare di ciò a cui pensano per la maggior parte del tempo, finalmente sono arrivati al punto in cui a qualcuno interessa raccontare a che ora cominciano a lavorare la mattina, e quante volte riscrivono la stessa frase, e quando hanno capito che volevano scrivere, e quante persone hanno deluso, e quante invece hanno creduto in loro. Sono così a loro agio che diventano generosi, non mantengono quasi nessun segreto.

 

E’ appena uscito per Fandango il quinto volume della Paris Review, che raccoglie dodici lunghe interviste a dodici grandi scrittrici. Contiene anche, quindi, l’intervista del 2006 a Joan Didion, che ha raccontato di non avere mai cominciato a scrivere un romanzo prima di avere riletto sempre lo stesso libro, Vittoria – racconto delle isole, di Joseph Conrad. “Perché fa sembrare una cosa giusta scrivere un romanzo di successo”. Una cosa giusta e possibile. “Lo stesso accadeva quando John e io stavamo per metterci a scrivere un film: tutte le volte riguardavamo Il terzo uomo, una sceneggiatura perfetta”. Joan Didion nel 2006 era sola, molto famosa, molto acclamata, stava per cominciare a scrivere Blue Nights, ogni mattina ripartendo da pagina 1, e riscrivendo. Per prendere il ritmo, per restare tutto il tempo in compagnia del suo libro. Era sicura di sé, ma non si considerava arrivata da nessuna parte. Quello che succede, leggendo le interviste della Paris Review, è simile a quello che succedeva a Joan Didion (chissà se lo fa ancora oggi) quando rileggeva Vittoria di Conrad: sembra che tutto sia possibile. Scrivere, vivere, stare sempre sul ciglio della propria esistenza, averla chiara, anche mandarla a rotoli. Non c’è mai soddisfazione per qualcosa che si ha conquistato, c’è sempre il tormento o il desiderio di quello che ancora non si è fatto.

 

Le scrittrici si sono sempre trovate d’accordo con Virginia Woolf: i soldi sono importanti per non dipendere da qualcuno

L’intervista a Dorothy Parker è del 1956, nove anni prima del suo infarto (lasciò tutto alla fondazione Martin Luther King, volle essere cremata e come epitaffio suggerì: “Scusate se faccio polvere”) e nelle sue parole si sente forte l’amarezza di essere percepita come una scrittrice spiritosa, leggera.

 

“Diamine, era una cosa insopportabile che cominciassero a ridere ancora prima che aprissi bocca”. Sessantenne piuttosto incline all’alcol, viveva allora con un cagnolino in una stanza d’albergo al centro di New York, giornali e costolette d’agnello per terra, ed era triste, probabilmente trasandata e bisognosa di una considerazione che non sentiva aderire al proprio cammino:

 

“Non voglio essere classificata come una scrittrice umoristica. Mi fa sentire colpevole. Non mi è mai capitato di leggere una scrittrice umoristica coi contro colbacchi che valesse la pena di citare, e io stessa non lo sono mai stata. Non ne sarei capace. Mi hanno definito ‘un’arguta spiritosona’, due parole che mi hanno rattristato enormemente. C’è una differenza profonda tra fare dello spirito e avere uno spirito pungente e raffinato. Il senso dell’humor contiene una verità, mentre chi dice spiritosaggini fa ginnastica ritmica con le parole”. Immagino che l’intervista, come tutte quelle della Paris Review, sia durata ore, probabilmente in diverse sessioni dentro la stanza d’albergo con le costolette d’agnello per terra, ma questo è il momento in cui Dorothy Parker offre la sua ribellione, il suo rimpianto, anche la fragilità di fronte al giudizio del mondo. Dice anche: “Avrei dovuto avere più buon senso”, e noi che leggiamo capiamo che qualcosa è finito per sempre, e che tutto il sarcasmo serve a coprire il dolore o a mostrarlo secondo la sua idea di dignità. Philip Roth quando ha smesso di scrivere e ha detto: “Credo di avere fatto il meglio che potevo con gli strumenti che avevo”. Invece Dorothy Parker ha detto, in questa intervista di quasi addio:

 

“Vorrei tanto saper scrivere bene, ma so che non è così, so di non essere stata capace. Per tutta la vita, fino alla fine dei miei giorni, però, avrò grande ammirazione per chi invece ci è riuscito”.

 

Queste interviste sono un genere letterario, e mostrano gli scrittori all’opera, raccontano una storia e svelano segreti

Questa dichiarazione mostra, più di ogni altra, più di ogni battuta tagliente e immagine fantasiosa, quanto Dorothy Parker sia una scrittrice seria. La capacità di ammirare chi ci è riuscito, chi ci riesce, chi non si è perduto. E la capacità di comprendere il cambiamento della propria esistenza, l’inizio della vecchiaia, che si manifesta attraverso la perdita di tante cose, e che in una donna assume una dimensione più evidente.

  

E’ il racconto che ha fatto di sé Simone de Beauvoir, ne La forza delle cose e anche nell’intervista alla Paris Review, nel 1965: non aveva ancora sessant’anni, lavorava ogni mattina e ogni pomeriggio (il pomeriggio spesso a casa di Sartre, che vedeva ogni sera: “Non scrivendo cose accademiche, mi basta prendere i miei fogli, e la cosa funziona abbastanza bene”, spiega all’intervistatrice che le chiede se non sia scomodo spostarsi ogni giorno da un appartamento all’altro) e sentiva di non avere mai raggiunto ciò che desiderava, perché i desideri vanno molto al di là dell’oggetto del desiderio. “Ho lottato per essere libera. Che cosa ne ho fatto della mia libertà? Dov’è finita?”.

 

“Mi sono sempre considerata vecchia”, ha detto, e intorno ai cinquant’anni ha deciso che non avrebbe più avuto relazioni sessuali. Ripeteva a Sartre: “Adesso siamo vecchi”. Ma senza pentimenti: “Se dovessi ricominciare da capo, non farei nulla di diverso. Non mi sono mai pentita di non aver avuto dei bambini, perché quello che volevo era scrivere”.

 

Simone de Beauvoir riteneva che quella fosse una scelta necessaria. E in queste interviste è una domanda che viene rivolta spesso, senza pudore. Ad esempio a Margaret Atwood, nel 1990. La maternità le ha dato una percezione diversa di se stessa?

 

Dorothy Parker offre la sua ribellione, la fragilità di fronte al giudizio del mondo. Dice: “Avrei dovuto avere più buon senso”

“Ci fu un periodo all’inizio della mia carriera che venne determinato dalle immagini di scrittrici donne a cui ero esposta: suicide geniali, come Virginia Woolf, o recluse geniali come Emily Dickinson e Christina Rossetti. O ancora autrici condannate in qualche modo, come le Bronte, morte entrambe giovani. George Eliot, che non ebbe figli; e come lei Jane Austen. Considerando queste autrici, doveva essere difficile – come scrittrice e come donna – avere dei figli e una relazione, a casa. Per un po’, pensai di dover scegliere tra le due cose che più desideravo: diventare madre e scrivere. Ma corsi il rischio”.

 

Virginia Woolf immaginava con grande precisione ironica, in Una stanza tutta per sé, la vita sfortunata della sorella di Shakespeare, ugualmente dotata ma inesorabilmente femmina, e da allora le scrittrici si sono misurate con la necessità di superare quel limite, l’hanno superato, hanno messo il bourbon in valigia, hanno vinto il premio Goncourt, il Nobel per la letteratura, hanno fatto figli oppure no, e si sono trovate, sempre, d’accordo con Virginia Woolf: i soldi sono importanti per non dipendere da qualcuno. La famosa risposta di Dorothy Parker alla sua intervistatrice che le chiede: allora, qual è la fonte di ispirazione per il suo lavoro? “Il bisogno di soldi, mia cara” non è soltanto mondana e brillante, ma è al centro della vita di una scrittrice. Grace Paley, poetessa e scrittrice di racconti, femminista, morta nel 2007, ha detto alla Paris Review, ma si rivolgeva alle scrittrici: “Non accettate di vivere con un amante o con un coinquilino che non ha rispetto del vostro lavoro. Non mentite, prendete tempo, chiedete prestiti per prendere tempo. Scrivete quello che vi toglierebbe il respiro, se non doveste scriverlo”. 

 


Marguerite Yourcenar (1903-1987) ha espresso il più totale disinteresse per il femminismo. In basso, Joan Didion in una foto del 1972: la scrittrice oggi ha 84 anni


 

“Scrivete quello che vi toglierebbe il respiro, se non doveste scriverlo”. Grace Paley e tutte le scrittrici intervistate non hanno paura di dire che è quello il centro dell’esistenza e del respiro, a prescindere dai risultati, a prescindere da quello che resterà. Simone De Beauvoir non voleva o non sapeva dire, nel 1965, che cosa sarebbe rimasto di lei, fra gli scrittori del suo tempo.
“Non lo so. Che cos’è che viene valutato? Il rumore, il silenzio, la posterità, il numero o l’assenza di lettori, l’importanza di un dato periodo? Penso che la gente continuerà a leggermi, per un po’. Almeno, così mi dicono i miei lettori. Ho dato un contributo alla discussione sui problemi delle donne. Lo so, è scritto nelle lettere che ricevo. Quanto alla qualità letteraria del mio lavoro, nel senso più stretto del termine, non ne ho la più pallida idea”. Un contributo alla discussione: Simone De Beauvoir ha raccontato la differenza rispetto agli uomini, ha apprezzato Virginia Woolf per questo (“per certi versi, credo che mi interessi più di Colette. Dopotutto, Colette è tutta presa dalle sue storielle amorose, da questioni domestiche, dagli animali, dal bucato”, ha detto con spietatezza. E Marguerite Yourcenar ha detto che “Colette, dal punto di vista dell’erotismo, si abbassa spesso al livello di un concierge parigino”) e ha però sempre mostrato, nei suoi libri, “le donne così come sono, come esseri umani divisi, e non come dovrebbero essere”.

 

Grace Paley: “Scrivete quello che vi toglierebbe il respiro se non doveste scriverlo… Non mi fermavo a dire: oh, non ci sono scrittrici”

Il pensiero di come una donna dovrebbe essere e vivere ha riguardato e riguarda ogni scrittrice singolarmente, anche quando si sono dichiarate femministe. Joan Didion ha pensato per tutto il tempo a scrivere, e quando ha analizzato il movimento femminista in un reportage (si trova in The White Album) ha avuto uno sguardo molto critico. Marguerite Yourcenar ha espresso il più totale disinteresse per il femminismo. L’intervista alla Paris Review è del 1987, l’anno in cui è morta, a ottantaquattro anni.

 

“Questi movimenti mi fanno orrore, perché credo che una donna intelligente meriti un uomo intelligente – ammesso che se ne trovino – e che una donna stupida sia noiosa esattamente come la sua controparte maschile. La malvagità umana è distribuita quasi equamente tra i due sessi”.

 

Per questo non volle essere pubblicata da Virago Press, in Inghilterra?, chiede l’intervistatrice.

 

“Rifiutai perché Virago Press – che razza di nome è per una casa editrice? – pubblica solo donne. Mi fa venire in mente uno di quegli scompartimenti riservati alle signore, sui treni dell’Ottocento, o un ghetto, o semplicemente il seminterrato di un ristorante dove ci si trova di fronte a due porte, una contrassegnata dal cartello Donne, l’altra dal cartello Uomini”.

 

Sono storie diverse, di donne che hanno seguito la vocazione della scrittura, e hanno superato tutti gli ostacoli, aperto tutte le porte

Perfino in una scrittrice attivista e femminista come Grace Paley c’è un’attenzione alla scrittura che è totalmente individuale, non comunitaria: “Scrivevo, e basta. Non mi fermavo a dire: oh, non ci sono scrittrici; ero più preoccupata dal fatto che l’argomento su cui scrivevo potesse essere banale”. Grace Paley è arrivata al femminismo proprio scrivendo, perché, ha detto, “scrivendo ho aperto la porta a me stessa”. Come Marguerite Yourcenar: “I libri consentono di sentire in modo più acuto. Scrivere è un modo di andare alle profondità dell’essere”.

 

Sono tutte storie diverse, ma sono storie di donne che hanno seguito completamente la vocazione della scrittura, e hanno superato tutti gli ostacoli, aperto tutte le porte. E comunque, anche quando si dicevano disinteressate, hanno aiutato le altre e, come ha detto Simone De Beauvoir, hanno dato un contributo alla discussione. Hanno guadagnato denaro, conquistato una libertà e un’autorevolezza, seguito una passione, hanno dato lezioni private per mantenersi, hanno chiesto aiuto e l’hanno dato. Hanno trovato, tutte, una propria unicità. Grace Paley ha detto:

 

“Ho sempre saputo di voler scrivere di donne e bambini, ma rimandai tutto per un paio d’anni perché pensavo che la gente l’avrebbe trovato un argomento banale, di nessun interesse. Ma poi mi dissi: sono queste le cose che devo scrivere. Che voglio leggere. E là fuori non ne vedo”.

 

E c’è sempre un incontro fondamentale, qualcuno che accende la luce e dice la cosa giusta. Grace Paley incontrò alla New School il suo poeta preferito, W. H. Auden. Era pazza di lui, amava le sue poesie al punto che nello scrivere le sue usava lo stesso inglese britannico, lei che veniva dal Bronx. Sbagliò bar al loro primo appuntamento ma quando riuscì a incontrarlo di nuovo gli diede le sue poesie. Lui lesse le poesie e le chiese: ma tu parli davvero così? E lei capì che stava sbagliando tutto, che non era quella la sua voce, che doveva trovare una voce. Poi gli chiese: ma devo continuare a scrivere secondo lei? E Auden rise, ma di colpo divenne tutto serio e solenne. Se sei una scrittrice, le disse, continuerai a farlo, indipendentemente da tutto. Uno scrittore non dovrebbe mai chiedere una cosa del genere.

 

Ecco perché è entusiasmante leggere le interviste della Paris Review: perché sono piene di vita, non solo di scrittura. Perché raccontano il cammino dello scrittore, la sua paura, e spesso, non sempre, la sua umiltà e curiosità. Gli inciampi, la povertà, anche l’amore. Simone De Beauvoir ha detto che le donne sono capaci di provare una più profonda compassione, che è il fondamento dell’amore, e che l’amore è un grande privilegio: quello vero arricchisce la vita di coloro che lo provano, uomini e donne. Ci sono, in queste vite, dichiarazioni di felicità, ma anche, come per Simone De Beauvoir, di profonda consapevolezza del punto in cui ci si trova: “C’è sempre stata continuità nella mia vita, e la mia relazione con Sartre va avanti da molto tempo. Ho amici di vecchia data che frequento ancora. Ho tanti anni alle spalle. E tanti davanti a me. Li conto”.

 

Noi leggiamo i loro libri, le ammiriamo, spesso le citiamo quando ci sembra che meglio di così non si poteva dire, e sappiamo quindi, ad esempio, che Simone De Beauvoir era ossessionata dal tempo che passa, ma sentirglielo dire da donna, nel salotto di casa sua, aggiunge commozione, avvicina la scrittrice ai suoi lettori. Del resto non si può mai, non si deve mai sapere quanto i personaggi di un romanzo siano vicini alle persone reali. Marguerite Yourcenar all’inizio delle sue memorie dice: “L’etre que j’appelle moi”, la persona che chiamo io. E che potrebbe essere chiunque, o anche solo un po’ diversa da lei. Nell’intervista invece la scrittrice è lì davanti, sotto il peso degli anni o ancora con la sua vita ben stretta tra le mani (nel caso di Joan Didion, in entrambi i momenti), risponde alle domande su di sé, sul suo essere non un personaggio da romanzo ma un essere umano che scrive. E che ha paura di non riuscire a scrivere tutto, o si dispiace di non averlo fatto abbastanza bene quando avrebbe potuto e dice, come Dorothy Parker: “Porco diavolo, io volevo essere tosta. E’ questa la cosa terribile”. Anche la collera, il bisogno di rivalsa, il senso di ingiustizia, l’invidia, l’esasperazione, e questo terribile tempo che passa, tutto in uno scrittore diventa qualcosa che può essere scritto. Virginia Woolf diceva che una scrittrice non può scrivere se prova collera. Grace Paley era convinta del contrario:

 

“Non si può scrivere se non si è sotto pressione. A volte quest’ultima deriva dall’ira, che poi diventa urgenza di scrivere. Gli scrittori hanno questa fortuna: quando sono adirati, l’ira – quasi per abitudine – trascende… no, direi piuttosto diventa un’acuta pressione che li spinge a scrivere, a raccontare”. Sotto pressione o perfettamente concentrate, libere da preoccupazioni economiche o affannate con i figli da crescere e le notti bianche a fare lavatrici, con un uomo accanto, con la compagna di una vita. in una stanza d’albergo o solissime in un grande appartamento, in prenda all’ansia, preoccupate per i figli o dentro una serena consapevolezza di sé e della propria dedizione, del proprio impegno, con la mania del controllo, con la mania dell’alcol, femministe o in lotta con il femminismo, queste donne hanno offerto la propria storia, anche a volte un tentativo di freddezza che poi è stato abbandonato. Hanno teso una mano a chi le ha lette o a chi le leggerà, hanno mostrato il cammino. Individuale, certo, ma con un filo che li unisce tutti e supera le età, la politica, le idee sul mondo, il punto di partenza, le umiliazioni subite.

 

E mi ha fatto venire in mente un’altra intervista, che purtroppo non è stata inclusa in questo volume: Joyce Carol Oates, che nel 1978 aveva quarant’anni, molti libri dietro di sé e molti davanti a sé, ha detto:

  

“Se il mio ruolo è scrivere, o leggere, potrebbe non essere davvero importante. Io prendo seriamente la dichiarazione di Gustave Flaubert, che noi dobbiamo amarci l’un l’altro nella nostra arte così come i mistici si amano l’un l’altro in Dio. Onorando la creazione di un altro noi onoriamo qualcosa che ci unisce profondamente tutti quanti, e va al di là di noi”.

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.