Joan Didion. “Da dove vengo”, ora riproposto in Italia dal Saggiatore, è del 2003. Quando scriveva queste pagine, il marito John e la figlia Quintana erano ancora vivi

Prima di perderli

Nadia Terranova

La famiglia e la città madre: i ricordi scritti quando c’erano ancora John e Quintana. “Da dove vengo”, dettagli magici di Joan Didion

"Questo libro è una ricerca sui miei equivoci circa il luogo e il modo in cui sono cresciuta, equivoci che riguardano l’America così come la California, fraintendimenti e malintesi a tal punto insiti nella persona che sono diventata che ancora oggi mi riesce di affrontarli solo per vie indirette", così si conclude il secondo capitolo del libro (romanzo? memoir? saggio? di certo qualcosa di diverso e più complesso del suo sottotitolo, Un’autobiografia) intitolato Da dove vengo (Il saggiatore, traduzione di Sara Sullam). In questo incedere intersecando il tempo, Joan Didion comincia da una bis-bis-bis-bis-bisnonna: si chiamava Elizabeth Scott, nacque nel 1766, crebbe sulle frontiere della Virginia e della Carolina e la sua esistenza diventò leggendaria quando, durante un combattimento contro gli indiani, si nascose in una grotta con i suoi undici figli. O forse erano otto: tanti erano quelli registrati all’anagrafe, gli altri chissà se esistevano per davvero. Di suo marito, un veterano della Rivoluzione e delle spedizioni Cherokee di nome Benjamin Hardin IV, si narra invece che uccise dieci uomini. O forse erano di più, sommando i soldati inglesi e i Cherokee. Ma a chi importa l’esattezza dei numeri? Le cifre, nelle storie che si tramandano dentro una famiglia, sono infiorettature, escrescenze da limare, buchi da riempire, parole in difetto o in eccesso, mai verificabili, servono a stupire, a esagerare, a rinforzare il mito. Quello che rimane, quello che è giusto sapere è che Elizabeth avesse occhi pieni di luce, mal di testa formidabili e una ricetta tutt’oggi valida per il pane di mais: è da lei che Joan Didion comincia un percorso fra i rami familiari, muovendosi dentro uno stato, la California, che diventa un universo. In queste pagine la scrittrice più brava di tutti a mescolare la sua storia con quella del mondo, i suoi libri a quelli degli altri, ciò che scrive a ciò che ha già scritto, nasconde il suo nome fra i nomi delle persone che l’hanno preceduta. Da loro procede e costruisce, mentre la sgretola, l’appartenenza a un posto in cui non vive più. La città di Sacramento è l’origine e la meta, è la sosta dentro un tempo insieme genealogico e storico. E’ una città-madre: “Nei giorni immediatamente successivi alla morte di mia madre mi ritrovai spesso a pensare alle ambiguità e alle contraddizioni della vita californiana, che lei stessa aveva in gran parte incarnato. Per esempio, disprezzava il governo federale e i suoi ‘regali’, ma non vedeva contraddizione alcuna tra una simile opinione e il fatto di sfruttare lo status di riservista di mio padre per usufruire gratuitamente delle prestazioni mediche e delle farmacie dell’Aeronautica, per fare acquisti negli spacci e nei duty free di qualsiasi installazione militare alla quale si trovasse vicina. Pensava che il vero spirito californiano fosse caratterizzato da un individualismo sfrenato, ma era capace di dilungarsi sull’idea dei diritti individuali in modo vertiginoso e spesso punitivo.”

 

La scrittrice più brava di tutti a mescolare la sua storia con quella del mondo, i suoi libri a quelli degli altri, ciò che scrive a ciò che ha già scritto

E’ vero, come si dice a proposito di questo libro, che Didion parla di sé e della città, di uno stato, di un continente, e che ne viene fuori la vita di diverse classi sociali. Ma il segreto che lo rende unico e interessante anche per chi non abbia mai messo piede in California è che la sua analisi non è disgiungibile mai dai dettagli, dalle parole scivolate di nascosto. La madre di Joan Didion per me sarà sempre la donna che a labbra strette commenta ogni evento bisbigliando: “Che differenza fa”. Se bisogna o meno rifare il letto (tanto poi ci si torna a dormire), se bisogna o meno far sparire la polvere (tanto poi riappare), se si possa o meno mangiare la carne il venerdì di Pasqua, disobbedendo ai dettami segreti di un’altra madre (la nonna di Didion) appena morta. “Che differenza fa”, conclude sempre, e quell’ultima volta fra le lacrime: perché a mangiare carne le sembra di violare non solo un cadavere, ma proprio quel cadavere appena seppellito. Nella scrittura, Didion può dire addio alla madre solo ricordandola mentre, a sua volta, dice addio alla sua: straordinaria mise en abyme, distacco nel distacco, sepoltura nella sepoltura.

 

Molte sono le donne che appaiono nel libro, molte le antenate chiamate in causa: “persone pragmatiche, alle quali era profondamente connaturato un radicalismo chirurgico, inclini ai tagli netti con chiunque e con qualunque cosa conoscessero. Sapevano usare il fucile e sapevano curare il bestiame e, quando le scarpe dei figli passavano di misura, imparavano dagli anziani a fabbricare mocassini”. Di quelle donne c’è traccia nella scrittura di Didion, di quelle parole è fatta la sua letteratura. Alla prossima persona che mi dirà che il suo stile è freddo, leggerò queste righe oppure gliele fotograferò, oppure ancora le parafraserò: è una scrittura che sa usare il fucile e curare tutto ciò che abbiamo di animalesco, che sa essere chirurgica e radicale, incline a incidere con un taglio netto con qualsiasi cosa incontri sulla strada. Una scrittura che sa quando è il tempo di conservare, di riparare, di andare oltre. Raccontando delle donne che l’hanno preceduta nell’albero genealogico, Didion usa le parole che dovrebbe usare per sé.

 

La madre sarà sempre la donna che a labbra strette commenta ogni evento bisbigliando: “Che differenza fa”. Un vestito verde pallido

E’ vero che Da dove vengo attraversa la storia e l’epica, il trionfalismo, l’individualismo, il senso di comunità, le grandi traversate, le migrazioni, le speculazioni industriali, la ferrovia, il crollo della Borsa del 1987, ma poi sono i particolari a restarti addosso. Chiudi il libro e pensi agli occhi di quelle donne, occhi che si arrossano al sole o al primo accenno di primule, occhi di donne sedute per un picnic, occhi che inevitabilmente ritrovi nello sguardo di Joan Didion nelle fotografie (minuta, tirata, sempre sul punto di nascondersi, con l’aria di chi sta lì di malavoglia togliendo tempo all’unica cosa che conta, la scrittura). Chiudi Da dove vengo e in mezzo a tutte quelle date, a tutte quelle citazioni, molto oltre quell’io ormai rimpastato e diventato un noi, resta un’immagine comune: la ragazzina con un vestito nuovo di organza verde pallido e una collana di vetro che scrive un discorso per la consegna dei diplomi, alla fine della terza media, in omaggio all’opulenza, alle conquiste, ai successi, alla crescita della California. La ragazzina è Didion, ed ecco gli equivoci: il significato della parola “ricchezza”, per esempio. Bisogna mettere molta distanza fra sé e il posto in cui si è nati per scrivere un libro esatto come questo, e quella distanza è misurabile attraverso tutti i libri scritti nel frattempo. Non si può essere poveri in California, pensava da bambina Joan, non c’è spazio per la povertà. La povertà aveva a che fare con certi luoghi attraversati nel Sud, durante la guerra, non con Sacramento. Aveva a che fare con il vagare seguendo il padre di stanza, in vie povere di città povere, fra serpenti e patate crude, sognando una vasca di bagno dove potersi lavare in albergo, lavata con un flacone di disinfettante al pino.

 

A metà libro, per tre pagine, Didion riferisce con dovizia un racconto di Faulkner, Golden Land. E’ uno dei pochi racconti di Faulkner ambientati in California e lei lo usa per spiegare cosa significhi, e in che contesto maturi, l’orgoglio di sentirsi californiani da più di una generazione. Che differenza ci sia fra l’essere figli di chi stava lì da secoli o essere “gente nuova”, arrivata con la Seconda guerra mondiale oppure nelle ondate migratorie: “La gente nuova, ci veniva dato a intendere, non conosceva la nostra storia unica, non capiva quali sforzi essa avesse richiesto, era cieca non solo davanti ai pericoli che il luogo ancora presentava ma anche alle responsabilità assunte, in modo condiviso, da chiunque avesse scelto di stabilirvisi”. Non c’è nessun orgoglio nella scrittrice che torna a casa, neppure letterariamente, nella terra da cui è nata: nascere in un posto piuttosto che in un altro è una casualità, non un destino. Proprio grazie a quell’assenza di rivendicazione, di esibizione, lei può mostrare un territorio autentico, denudato fino all’osso.

 

Da dove vengo è del 2003. Precede L’anno del pensiero magico e Blue Nights. Per me, che li ho amati smisuratamente usandoli come metro di tutto quanto mi è successo, che li saccheggio ogni volta che devo scrivere di una lacerazione, di qualcosa che brucia troppo e non so da dove prendere, la lettura di Da dove vengo è stata accompagnata da un pensiero costante: quando Didion scriveva queste pagine, John e Quintana c’erano ancora. Il marito e la figlia erano vivi, e nella sua vita. Non so se è un pensiero che è lecito fare, ma la letteratura è il territorio dell’illecito, quindi ho cercato in questo libro tracce di una solidità. Potrei perfino dire se le ho trovate o meno, ma la mia risposta sarebbe arbitraria, opinabile. E’ sopraggiunta invece un’altra domanda: in quale punto della sua vita Joan Didion si trovava quando ha deciso di mettersi a scrivere questo memoir, non soltanto volgendosi al passato, ma addirittura risalendo da un punto lontanissimo. Ancora una volta nessuna risposta definitiva, costellazioni di ipotesi. C’è Quintana, nel finale, in scena con la nonna, la madre di Didion, che è già in ospedale, otto settimane prima della sua morte. Insiste per dare a figlia e nipote due pezzi di argenteria, la nipote accetta, Joan tentenna, non lo vuole, ha già argento a sufficienza, infine cede. Ha ancora l’illusione che sua madre possa vivere a lungo. Non sarà così. Ho pensato che è stato allora che la scrittrice Joan Didion, nel ruolo di figlia e madre, ha concepito questo libro. Ho pensato che delle tre donne di quella scena solo una vive ancora, quella che racconta, e non è più né figlia né madre. Ho pensato che ogni libro è un addio e nessun libro è definitivo, ma, come sempre, Joan Didion l’ha detto meglio: “Non esiste davvero un modo per fare i conti con tutto ciò che perdiamo”.

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