una scena di Ruby Sparks, film del 2012 diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il disastro della letteratura che scrive in iperstile per farsi notare un po'

Alfonso Berardinelli

Tra stizzosi coaguli di mosche e “occhi topeschi”. Si punta tutto sullo stile in modo caricaturale, immaginando che più si elettrizza, più si condisce, più si aggiungono aromi e fetori, spezie e droghe, e più c’è letteratura

L’interessante e per me utilissimo numero 18 del supplemento Orizzonti del Corriere della Sera (“Idee per il futuro”) si apre ahimè con un racconto. Provo a leggerlo e mi chiedo che cosa sto leggendo. E’ un testo iperletterario, linguisticamente congestionato fino all’inverosimile, una di quelle varie e inutili caricature di stile “alla Gadda” che si sforzano di far credere subito “qui letteratura!” a chi non sa che cos’è e cos’è stata letteratura. Eppure l’autore del racconto è Omar Di Monopoli, un autore Adelphi, casa editrice la cui tradizione avrebbe dovuto far capire qualcosa di letteratura.

   

Ecco il primo capoverso: “Uno stizzoso coagulo di mosche andava addensandosi nell’aria torbida e radioattiva. Scure nubi in grisaglia, gonfie come dirigibili, erano ormeggiate alle buie strie conoidali delle ciminiere in disuso che crestavano l’orizzonte mentre giganteschi rottami di pescherecci e sottomarini impuntivano l’arenile scosceso come carcasse di creature leggendarie che le profondità ormai acide e cancerose dell’oceano avevano risputato”.

   

Accidenti che stile! Caro Omar Di Monopoli, più di così si muore! Lei ce l’ha messa tutta. Che densità di materia, che evidenze fisiche, che percezione visionaria, che accumulo lessicale, che aggettivazione, che similitudini, che incipit mozzafiato subito “in medias res”, proprio in mezzo alle cose: e che cose… Quello “stizzoso coagulo di mosche”… E’ possibile? Io credevo che un coagulo, una coagulazione, fosse qualcosa che accade, che si realizza, solo per liquidi organici come il latte o il sangue, cioè quando c’è materia senza vuoti: ma tra una mosca e l’altra, per quanto in combutta teppisticamente aggressiva, ci saranno pure dei vuoti, degli spazi d’aria… No, niente spazi, nessun vuoto. L’autore ha l’horror vacui. Mette le sue mani subito in pasta, crea una pasta collosa che deve appiccicarsi al lettore in modo che non se la scolli più di dosso.

   

Se non ci fosse stato un soccorrevole redattore a confezionare l’indispensabile riassunto della faccenda fra titolo, sopratitolo e sottotitolo, del cosiddetto racconto si capirebbe poco. In scena è una “coriacea vecchina” di nome Pietra, ci viene spiegato, che si muove tra le rovine delle acciaierie Italsider di Taranto come in uno scenario postapocalittico. Il titolo è “Pietra, regina di un futuro barbarico”.

    

Ma ecco il secondo capoverso: “Pietra, sgusciando agile dalla foresta di detriti abbandonati, si levò all’impiedi ed espirò bruscamente l’aria con la bocca prima di sollevare il bordo della propria kefiah strinata appesa al collo. Si incappucciò sino a lasciare scoperti solo gli scuri occhi topeschi e strizzò piano le palpebre. Il resto del suo corpicino minuto, ancora aitante nonostante l’età non più gagliarda, era fasciato da uno strato di stracci ragnati e bisunti per limitare al meno possibile il contatto della pelle con la densità di benzene e anidride solforosa dell’atmosfera. Lontano, laddove lo sguardo della donna scontornava l’orlo del creato in una informe matassa di pinnacoli industriali, l’enorme conglomerato di ciò che una volta era stato il più grande impianto siderurgico d’Europa sembrava attenderla sinistro e sonnolento”.

   

Mi fermo qui, perché altrimenti dovrei costringervi a impegolarvi nella lettura di un intero testo che non racconta molto ma piuttosto (quando non si trasforma in un articolo di denuncia) descrive, pur di sfoggiare un lessico appiccicoso e stizzoso come un “coagulo di mosche”. 

  

A parte la personale esperienza di lettore che apre un giornale e incontra questo capolavoro di letterarietà al quadrato, c’è una considerazione da fare. Comincia a circolare e a imporsi l’idea che forse la massa di narrativa italiana con cui hanno a che fare gli editori grandi e minimi è priva di stile e lo stesso uso della lingua italiana appare letterariamente inconsapevole. Se questo è vero, qual è il rimedio? Il rimedio (pensa qualcuno) è puntare tutto sullo stile in modo maniacale, caricaturale, immaginando che più si caricano gli effetti di sorpresa, più si elettrizza, più si condisce, più si aggiungono aromi e fetori, spezie e droghe, e più c’è letteratura. Più si è creativi, originali, inconfondibili, e infine premiabili come “fenomeni stilistici”. E dato che la critica letteraria è in disuso, nessuno la vuole fare e nessuno la sta a sentire, non restano che i linguisti. Bisogna impressionare i linguisti. E’ vero che di solito capiscono poco di letteratura e non oserebbero mai dare un giudizio di valore, dato che si sentono scienziati avalutativi come si deve. Ma almeno si dà lavoro a loro, li si impegna a schedare gli usi linguistici inusitati. Se la lingua italiana è assediata da un lato dall’inglese e dall’altro dal ritorno delle parlate locali e dialettali, se lo stile è assente, bisogna rimediare scrivendo in stile, più che in lingua. O meglio in quell’iperstile che fa in se stesso pubblicità a se stesso. Perché se non ti metti in maschera nessuno ti riconosce.

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