Silvana Annicchiarico, foto designdiffusion via YouTube

Silvana Annicchiarico, vestale del design

Carmelo Caruso

Dirige il museo più allegro di Milano e ha preparato una mostra con le icone del ’900 italiano

“Il miglior modo per parlare di design è non utilizzare la parola design”. Vietarlo? “No, ma non abusarne”. E invece a Milano si è felicemente sommersi. Non c’è solo il Salone (e il Fuorisalone) del Mobile che ha aperto martedì scorso e chiuderà domani, domenica, ma che in realtà non finisce. Al Triennale Design Museum di Milano c’è infatti “Storie. Il design italiano” (fino al 20 gennaio 2019), un percorso di 180 pezzi iconici che ha selezionato la direttrice Silvana Annicchiarico insieme ad altri cinque curatori. “Raccontano il meglio del Novecento. Abbiamo pensato che fosse necessario fermarsi al 1998. E’ difficile leggere il contemporaneo. Occorre tempo. Andare oltre non sarebbe stato possibile e forse non sarebbe stato corretto”.

   

A Roma di design sono pure le buche. Ha mai pensato di farne una mostra? “Potrebbe essere un’idea. In realtà le buche sono la vera mappa di una città”.

  

L’idea della dinamicità. “Un museo ha come compito quello di conservare, un museo del design di raccontare e indagare”

A Milano, nella mappa della metropolitana, è invece entrato il museo Triennale e la fermata è dunque Cadorna-Triennale, uno sberleffo che sarebbe piaciuto ai dadaisti: il generale della ritirata insieme all’arte che progredisce. “L’intero museo è costruito intorno all’idea della dinamicità. Un museo ha come compito quello di conservare, un museo del design di raccontare e indagare”. E infatti entrando al Design Triennale Museum, che Silvana Annicchiarico dirige dal 2007, la sensazione è quella di accedere in un’officina senza imbrattarsi di grasso ma profumando di vernice e pure la luce rimanda al cielo aperto che si può osservare in cima a un ponteggio anziché alla solidità razionalista di Giovanni Muzio, che il museo lo progettò negli anni Trenta con la complicità del pittore Mario Sironi e dell’architetto Gio Ponti. “Mi piace l’immagine del cantiere e non solo perché ci ho lavorato ma perché ci sono cresciuta”. Figlia di architetti? “Padre geometra”.

  

 

La Annicchiarico riceve al Palazzo dell’Arte occupato da operai e da imballaggi, da legno e da plastiche, popolo e materiale che renderà possibile l’apertura della mostra che per la prima volta fa la sintesi delle icone italiane. Gli oggetti sono stati collocati su una sorta di nastro che restituisce non solo l’idea della strada ma anche quello della rotta. Tra le icone, le più singolari non sono la Cinquecento, che c’è, e neppure la Vespa, anche questa presente, o gli occhiali Persol 649 di Marcello Mastroianni e del suo “Divorzio all’italiana”. Le più insolite sono l’Alzaimmondizie di Gino Colombini, la pompa di benzina Agip di Marcello Nizzoli, il Bidone Aspiratutto di Attilio Pagani e Francesco Trabucco o ancora l’opuscolo pubblicitario di Antonio Boggeri dal titolo “L’uovo di Colombo” che fa il paio con quello Kinder della Ferrero.

  

Icone quindi, ma la sua? “Posso tenerla nascosta?”. Si riesce tuttavia a individuarla nel suo studio (c’è il portacenere Cubo di Bruno Munari), che la Annicchiarico racconta essere stato ricavato da un locale di termoventilazione nel 2007 quando il museo in pratica è stato inaugurato e aperto al pubblico. Prima di quella data c’è stato un lungo periodo di gestazione, tavoli e discussioni, tante idee sparse e buona volontà. “La domanda era: come lo facciamo? Con che cosa lo facciamo? Cosa esponiamo?”. La Annicchiarico è infatti arrivata al Design Triennale Museum alla fine degli anni Novanta, quando professori e politici si rompevano il capo su cosa farne e sul farlo presto. “Io invece in quegli anni mi occupavo di architettura di grande scala. Ho lavorato in Marocco, nella Medina di Fez, nei barrios di Santo Domingo”.

  

 

“Esporre un oggetto di design è diverso da esporre un olio su tela. Nel nostro caso era necessario costruire prima di tutto un pubblico”

Annicchiarico è però un cognome che sa di meridione… “Origini irpine e campane. Ma, attenzione, sono nata in Belgio, a Bruxelles”. Fuggita? “Sono tornata sin da piccola in Italia, a Monza”. Racconta che avrebbe voluto frequentare il liceo artistico, ma che alla fine ha scelto lo scientifico “Frisi” sempre a Monza. Perché? “Perché mio padre lo riteneva più istituzionale mentre l’artistico, a suo parere, era alternativo. Sia chiaro, non mi ha imposto nulla. Ho accettato il suo consiglio”. Come ha accettato quello dell’architetto Stefano Boeri (a proposito, oggi è il presidente della Triennale) che le ha consigliato di presentarsi a una selezione che anticipava quanto poi ha fatto con la sua riforma museale il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Si trattava di vere e proprie interviste fatte da una commissione a dei concorrenti liberi di presentarsi e naturalmente di essere bocciati. Non concorrevano per la direzione ma per occuparsi della collezione “mobile” della Triennale. Oggi si direbbe una collezione sharing, in condivisione. “I pezzi erano ‘prestati’ dalle aziende. Non erano di proprietà del museo. A quel tempo avevo circa trent’anni”. E il museo vantava zero visitatori. Oggi la media è di 150 mila visitatori l’anno. Di sicuro è diventato l’edificio più allegro di Milano, un rifugio di intelletti inquieti, stramberia, ma questa sì di talento, che qui trova riparo e si mescola con il rigore dell’accademia, si misura con la concretezza e i bisogni dell’industria. In alcuni casi è perfino fenomeno social come durante la mostra “There is a Planet” di Ettore Sottsass, che aveva il merito, anche grazie all’allestimento di Michele De Lucchi, di non mostrarne solo le opere ma di offrire anche i suoi pensieri. Ebbene, gli aforismi sono finiti per essere condivisi su Twitter e “Sottsass” è apparsa come parola di tendenza per una notte. “E però, quando sono entrata era un posto quasi respingente. Per ripensarlo venne chiuso alcuni mesi. Abbiamo così iniziato a costruirlo dalla fondamenta tenendo conto che una collezione permanente di oggetti di design esiste e si trova presso il Belvedere Villa Reale di Monza. Esporre un oggetto di design è diverso da esporre un olio su tela. La moka della Bialetti o di Aldo Rossi fa piacere osservarla una volta ma di certo dopo averla vista non si torna a rivederla. Ci siamo convinti che l’unico modo era fare dei carotaggi, degli affreschi sul design e restituirli come fossero tante pale di un unico altare. Nel nostro caso era necessario ‘costruire’ prima di tutto un pubblico. Ogni anno quindi abbiamo immaginato una collezione diversa. Perfino nella caffetteria abbiamo creato delle piccole mostre per dare la possibilità di vedere delle opere anche senza pagare un biglietto. E’ nato così un museo che cambia d’abito in continuazione e che tiene soprattutto conto dei giacimenti sparsi. Intendo collezioni private, studi di artisti…”.

   

A pochi passi dalla Triennale c’è infatti l’abitazione e lo studio di Achille Castiglioni, che per i più sapienti è il disegnatore della lampada Arco, della Toio costruita con un fanale d’auto (anche Arco è esposta in “Storie”) ma per i più semplici, che di design non se ne intendono ma lo usano, è il padre dello switch, l’interruttore che utilizziamo per accendere qualsiasi lampada e dal clic perfetto. “Proprio per salvaguardare questi patrimoni ho sempre detto al management che guida la Triennale: meglio una mostra in meno ma uno studio in più. E’ un tesoro che non va disperso”.

  

La Triennale è dunque entrata, come nel caso di Castiglioni, nelle fondazioni, sostenendole e poi rimanendo nei vari consigli di amministrazione. “Lo abbiamo fatto anche con quella di Vico Magistretti. Sarebbe bello farlo con il designer Enzo Mari, anche lui uno straordinario pensatore come Sottsass e Gaetano Pesce”.

  

Sottsass scriveva che non esiste architetto che non si sia cimentato con il progetto di una sedia. Ha provato? “No, ma ho lavorato al piano del traffico di Biella e con lo studio Aulenti”.

  

Nel cammino della Annicchiarico c’è la collaborazione con Gae Aulenti, lo studio Belgiojoso e naturalmente la formazione al Politecnico che, chissà se lo è ancora, è stato il corridoio degli scherzi di Castiglioni, che agli studenti diceva così: “Se non siete curiosi lasciate perdere”. “Il mio maestro è stato invece Walter Barbero. Mentre a proposito del Politecnico posso dire che è stato per me un luogo speciale. C’è un rapporto particolare tra quell’edificio e il quartiere. Ai luoghi come agli oggetti ci si deve affezionare”.

   

Gillo Dorfles, che alla Triennale era affezionato e che passava in libreria per controllare se fossero ben esposti i suoi testi, pensava che senza l’affezione gli oggetti e i luoghi diventassero solo feticci. “Sono d’accordo e infatti mi dispiacerebbe immaginare il Politenico in un altro luogo che non sia Città-Studi”.

  

Se ne è parlato e si è anche ragionato sul costruire un nuovo Museo del Design, di spostare quello attuale al Pirellone come ha proposto, sul Corriere della Sera, Mario Bellini. “Sinceramente trovo l’idea di spostare il Museo del Design in un piano del Pirellone una sciocchezza. Questo museo è connesso alla Triennale ed è questa l’istituzione che ha più vocazione verso le discipline contemporanee. Un pubblico non è un fungo che si trova. Ciò non significa che, per partito preso, mi dichiari contro la costruzione di un edificio o di una piccola città del design firmata da un grande architetto. Potrebbe essere uno spazio dove mettere insieme museo e non solo. Questo sì, mi sembra interessante. Ma siamo a Milano è il dovere è quello di essere pragmatici”.

  

Lo spazio comincia a essere stretto. L’idea di costruire una piramide, sul modello Louvre, come sancta sanctorum delle icone

A Milano, sin dalla giunta guidata da Letizia Moratti aleggia l’idea di questo nuovo museo ed è tornata d’attualità dopo l’intervento del presidente del Salone del Mobile e proprietario di Kartell, Claudio Luti. Intervistato sempre sul Corriere, Luti non ha suggerito spostamenti ma ha invocato l’allestimento di una sezione con pezzi permanenti. “Che come ripeto è presente a Monza. Dove, mi piace ricordare, apre anche un percorso su design e territorio della Brianza. Dalle fibre naturali provenienti da paesi come Lurago d’Erba fino agli ultimi cappellai di Monza”.

   

Come si vede, il lusso di Milano è quello di poter dibattere sul costruire o sull’ampliare. La Annicchiarico dice di essersi accorta lei per prima che lo spazio del Design Museum comincia a essere stretto. L’anno scorso il nodo è stato discusso in un seminario e la direttrice ha ipotizzato la costruzione di una piramide, sul modello Louvre, per farne un sancta sanctorum delle icone o ancora rendere i depositi visitabili. “Una cosa è certa: amo la critica infiammata, la polemica, che preferisco alle prose corrive, ai giornali sbiaditi”. Tra i ruoli ricoperti dalla Annicchiarico c’è pure la vicedirezione della rivista Modo. “E anche lì ci sono finita per caso, su consiglio di un’amica. Ho sempre amato l’editoria, la grafica”.

   

Le piace il design dei giornali italiani? “Li trovo faticosi e riconosco che si è pensato, troppe volte, che la grafica potesse bastare a sostituire i contenuti, l’articolo ben scritto. Insomma stupire con il disegno senza divertire con le parole”.

   

E’ l’ultima ossessione del giornalismo. “Non so. Anche le ossessioni andrebbero studiate. Nel design ce ne sono state”. Ha provato a studiarle? “Certo. Abbiamo fatto una mostra chiamata appunto ‘Le sette ossessioni del design italiano’. Tra queste c’è l’impilabilità. Tutti i designer si sono esercitati nel disegnare oggetti che fossero impilabili. O tutti hanno avuto l’ossessione della dinamicità”. E forse c’è stata anche l’ossessione che il design non fosse più un sostantivo ma un diploma. “Oggi di design sono pure le acconciature. C’è stato un momento in cui la parola è esplosa. E per un certo verso è magnifico. La parola è meravigliosa. Può dire tutto ma se si abusa vuol dire niente”.

    

“La verità è che nulla in questi anni è stato capace di farsi icona quanto un iPad. Quale icona migliore se non una tavola?”

Per Sottsass, che il design lo ha fatto, parlare di design era come commentare le nuvole. “Il design è una disciplina che divide tutti. Non c’è accordo neppure tra gli storici. Quando inizia? Nel dopoguerra? Durante il futurismo? Non si può stabilire”. E però è un affare circoscritto a Milano. “La ragione è che a Milano si sono svolte le intere fasi: la progettazione, la produzione e la comunicazione. In realtà c’è design dappertutto: a Montebelluna come in Campania”. Ma non se ne ricorda nessuna, di icona, che sia entrata in questi anni nelle nostre case eccetto il Mac o l’iPhone. Perfino le ultime icone di design sono rivisitazioni: dalla Cinquecento alla Panda e spingendosi più in là si arriva al vintage e al ritorno del giradischi.

   

Il design è nostalgia? “Il vintage me lo spiego con un bisogno di tattilità. Ogni volta penso alle cornette che molti hanno cominciato a collegare ai loro iPhone. La verità è che nulla in questi anni è stato capace di farsi icona quanto un iPad. Quale icona migliore se non una tavola? Ciò non significa che non ci siano bravi designer italiani. Alla fine, a pensarci, siamo riusciti a esportare il nostro modello di museo e il Fuorisalone (del Mobile) ce lo copiano adesso pure in Giappone”.

  

Che progetti ha Boeri per la Triennale? “E’ così presto che perfino a Boeri non si possono chiedere quali saranno i progetti. Li scopriremo”. Nessuno alla Annicchiarico, da undici anni, ha tolto la sedia che è quella del comando. “Diciamo che è una sedia molto stabile”. Di design è diventato il museo del design.

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