Guida (selettiva) a cosa non perdere della Design Week

Stefania Vitulli

Dai seminari ispirazionali al robot per scrivere (e cancellare) sui muri. Il domani e un po’ di ieri

Nel FuoriSalone ogni anno ci sta un po’ di tutto, gioiellieri (da Tiffany in là), stylist, fashion-aholic, il Fai, Amazon e Microsoft, artisti e tram dedicati. Perché al FuoriSalone trovi la Milano che conta e se non fa i mobiletti, pazienza: fa funzionare il “sistema Milano” e va bene così. Però anche al FuoriSalone lo sai già da prima, lo capisci anche senza compulsare la guida di Interni, che ci sono massimo sette, otto eventi che non ti devi perdere, quelli che li sospirerai anche dieci Design Week dopo: “Ma stavolta non c’è un’installazione come quell’anno che in quella chiesa sconsacrata hanno messo un crocifisso rosso enorme? Va beh, ma allora…”. Roba forte ce n’è anche in questa edizione: non che i brand si siano scatenati con la creatività, ma qualcuno ha provato a combattere la liquidità dei tramonti in città tra djset e cocktail party con concetti durevoli, di cui diamo breve mappa.

 

La prima segnalazione sembra una zattera verticale nel territorio glam del design, ma si riferisce a una “maratona” visionaria che avrà di sicuro il picco di visibilità della settimana. A New York c’è la Juilliard dei designer: sfida la società ibrida e sforna i progettisti del mondo resiliente. Si chiama Parsons School of Design: un must per gli studenti outstanding del globo. La preside, Lidewij (per gli habitué Li) Edelkoort, oltre a essere una delle consulenti aziendali più pagate al mondo (con la sua società Trend Union), tiene seminari ispirazionali, interdisciplinari e visionari che quelli delle Ted Conference si mangiano le mani da quanto sono azzeccati (un bel po’ li hanno messi su Youtube: guardare per credere). Trend forecaster che dà consigli a Zegna e Cerruti, ma non disdegna Coca-Cola e Disney, la signora Li arriva alla Design Week invitata da Liganova (società di consulenza al suo debutto), sale sul palco dell’Anteo oggi alle 10 e 30 e guida un evento di cinque ore. Presenta “Enlightenment”, previsioni nuove di zecca su tendenze e tessuti, e riassume un suo classico, “Spiritual House”. Parole d’ordine: semplicità, consapevolezza, spiritualità, sopravvivenza (come non condividere?). Partecipare costa poco meno di cento euro l’ora (light lunch compreso), si prenota online e il global client ha speso volentieri.

 

Un altro signore degli anelli della Design Week è il torinese Carlo Ratti che presenta la sua innovazione di turno occupando il cuore di Milano, piazza Duomo, per lanciare un crowdfunding che partirà il 5 giugno. La visitina al suo bebè, di nome Scribit, sarà indimenticabile perché incarnazione di più ossimori: eterna impermanenza, innovazione ancestrale, grotta digitale e così via. Scribit è un robot che automatizza la scrittura sui muri (ma anche su vetri e lavagne) e poi la cancella in tempo reale. Sicché, dalla cameretta al ristorante stellato al condominio alternativo, ciascuno (bastano “cinque minuti, due chiodi e una presa”, dice Ratti. “Sì, ma sa’l custa?”, rispondiamo noi) potrà comunicare sogni, menu e slogan come fosse un camuno e poi ricredersi. Il futuro non è più quello di una volta. L’occupazione del Domm in 3d di Ratti non finisce qui: nel padiglione davanti a Palazzo Reale ci stanno anche le “Quattro stagioni” per introdurre la filosofia di “Climate Remediation”.

 

Altra tappa concettuale tra gli imperdibili: i palazzi “storici” revampizzati. L’esperimento non sempre riesce, ma nel 2018 tre (più un outsider fuori le mura) ce l’hanno fatta con lode. A meditare si va da Philip K Smith III per COS con la sua insolita immersività, che stavolta s’ispira al Rinascimento e porta il cielo per terra nel quadrato di corte di Palazzo Isimbardi. A mangiare da David Rockwell che – in occasione del quarto di secolo del magazine Surface – mette in scena in Stazione Centrale, nei Magazzini Raccordati (quegli spazi in cui dagli anni Trenta del ’900 a Milano si vendevano vino, olio, pesce, frutta, poi si stivarono le armi durante la guerra e poi dormirono i primi emigrati dal Sud), un diner americano aperto da colazione a cena con piatti US, dalla torta di nonna Papera ai cheese-panini.

 

Infine a esplorare si va molto fuori dal centro, ospiti del progetto Alcova (a cura di Studio Vedèt e Space Caviar) in via Popoli Uniti 11/13: mostre, talk, performance d’avanguardia e un chiosco giappo-italiano in mezzo a una vegetazione indomita. La location, ovvero Cova – sì, proprio la ex fabbrica del panetùn – è d’obbligo per nutrire la nostalgia del milanese doc, in una periferia non gentrificata. Fermata Pasteur, rinominata NoLo (North of Loreto) ad uso del Salone. Qui c’erano gli operai delle fabbriche di Sesto San Giovanni e oggi c’è il coeur dei cinefili meneghini, il Beltrade. Ma anche il Trotter, il bar Ligera, le ville della Martesana e l’Assab One, il progetto di “resistenza neighborhood” firmato Elena Quarestani. Se poi, già che siete lassù, proiettati verso Nord e Brianza, volete allungare un poco a Ovest e raggiungere Varedo (direzione Meda e zona mobilieri) c’è “Casa libera!”, cioè a dire Ambra Medda e l’Archivio Osvaldo Borsani invitano per il Salone (solo fino a domani, solo fino alle 17) alla visita di Villa Borsani, chicca modernista arredata e corredata da nomi come Adriano Spilimbergo e Lucio Fontana con 3.000 metri quadri di giardino favoloso.

 

Fatti i compiti per alimentare lo spirito, che ci manca da vedere? Tutto il resto: gli artigiani giapponesi con Nendo da Superstudio, i norvegesi che hanno occupato Zona Tortona, i danesi a San Simpliciano, i colombiani al Vereda Festival in viale Umbria 42, i vegani in via Zecca Vecchia 3, la Disco Gufram, sberluccicante omaggio alla Generazione X alla Mediateca Santa Teresa, il minimuseo da 200 pezzi iconici di Vitra alla Pelota, l’architetto Locatelli di CLS che costruisce una casa di cento metri quadri con una stampante 3d in piazza Beccaria e poi un salto da Rossana Orlandi in via Bandello, che è sempre bello anche quando non c’è il Salone, figurati adesso che Ini Archibong celebra i dieci anni di Sé con una collezione da venti pezzi supertrendy, come tutto l’afroamericano nel 2018. Tutta roba che in un sabato si fa e poi ci si rilassa con un vassoio di mignon della domenica alla Martesana: la pasticceria storica di via Sarpi si è inventata “DGusto” e il mastro pasticcere Alessandro Comaschi ha dato corpo a dolcetti progettati da venti designer internazionali. Un salottino di mini cialde, un comodino di zucchero, un letto di pan di Spagna e buonanotte Design Week, è già lunedì.

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