Biagio Castilletti al lavoro nella bottega di Ragusa Ibla (foto © Giuseppe Borno)

I poeti del colore

Costanza Di Quattro

Le donne, i cavalier, i santi… In principio fu il carretto siciliano. Arte e favola degli ultimi carradori, oggi corteggiati dagli stilisti

Suonano le dieci con regolari rintocchi che risvegliano i colombi assopiti fra le volute barocche della chiesa di San Giorgio. Ibla si sveglia placida e lenta, morbida e nascosta. I passi battono il tempo e tagliano il corso protetti da quella coltre di infinita bellezza. Ed è qui, in questo paradiso di pietra e luce, che vivono i “mastri carradori”, geni superstiti e solitari di un’arte antica che fino a mezzo secolo fa dipingevano i carretti e che oggi sono tanto amati e ricercati dagli stilisti e da quasi tutti i creativi della moda. Sulla porta l’insegna: “rosso cinabro”, come quel pigmento la cui storia si perde nella notte dei tempi. Rosso vermiglio, dalla lucentezza adamantina, tanto intenso quanto magico nelle sue mille storie. Dentro la bottega rimbalzano memorie che sembrano troppo lontane. Chiunque vi entri non potrà rimanere indenne rispetto a quella esplosione di colori che acceca vista e pensieri. Librerie stipate di vasi, lanterne, piatti e teste di moro, pupi siciliani, arabeschi, una bicicletta vintage da decorare, due carretti siciliani, un calesse, una cinquecento Fiat ripitturata.

 

Testimoni di un mondo antico, i carradori Biagio Castilletti e Damiano Rotella danno vita a un’arte che è soprattutto tradizione

E’ difficile mettere a fuoco i personaggi reali e immaginari che vivono dentro queste mura, perché i colori ti accecano: c’è il rosso che sembra sgorgato da una vena calda e passionale,c’è il giallo del sole e il verde delle colline; e c’è pure l’azzurro del cielo d’inverno, quel cielo terso e limpido che sembra rubato alla matita di un bambino.

 

Si resta a bocca aperta per lo stupore, e poi finalmente, dopo avere messo a fuoco, le donne e i cavalieri appaiono tutti in fila. Rinaldo, Orlando, Angelica, Bradamante, i Mori, gli elmi e le durlindane e poi san Giorgio, san Sebastiano, i draghi verdi e le lance trafiggenti, compare Alfio e compare Turiddu della “Cavalleria rusticana” che sembrano cantare dipinti sulle sponde dei carretti e poi le foglie d’acanto, l’araba fenice e la ruota della fortuna che non lasciano spazio al vuoto, riempendo di luce il buio.

 

In questa bottega, Biagio Castilletti e Damiano Rotella danno vita alla magia di un’arte che in questo settore è soprattutto tradizione. Hanno un berretto sulle ventitré, sono vestiti di velluto a coste larghe, un grande fiocco intorno alla camicia bianca e uno spolverino nero imbrattato di colori. “Non siamo pittori, non inventiamo nulla”, dicono. “Il nostro compito è riprodurre secondo gli stilemi rigidi di una tradizione troppo spesso violentata dalla banalità di un brand che racchiude tutta la Sicilia in un calderone di sprovvedutezza e confusione. Noi siamo fra gli ultimi testimoni di questo mondo antico e il nostro abbigliamento ne è la conferma”.

 

Dal ciclo carolingio alla vita dei santi ai melodrammi, le sponde del carretto hanno raccontato il mito, l’inganno e il sogno

Ci si siede fra polveri colorate e polveri del tempo. Damiano interrompe la pittura del ciclo sacro sulla chiave di un carretto, sul pannello cioè che lega le due ruote, mentre Biagio ripone sul bancone un’arabesca piena di mille animali cesellati sul ferro. Domandare cosa sia quella magnifica opera d’arte diventa inevitabile. “L’arabesca è quell’ornamento che sta sotto il carretto: è praticamente invisibile ma è una delle parti più ricche di cesellature e decorazioni”, risponde Biagio. E se tu ti azzardi a obiettare che tutto quel lavoro potrebbe anche essere un inutile spreco, ti troncano sul nascere ogni divagazione: “Nulla è inutile. Il carretto siciliano, le cui origini risalgono alla prima metà dell’Ottocento, era un mezzo di lavoro molto prima di diventare quell’oggetto meraviglioso e tipico che adesso riconosciamo. Il carrettiere era un uomo di mondo, il suo lavoro lo portava a girare per paesi e contrade e a diventare spesso aedo di storie e racconti esotici. Le avventure narrate, incise e pitturate altro non sono che la firma di quell’uomo, in talune occasioni quasi una ostentazione, una pubblica e itinerante manifestazione di opulenza. Si sa bene che noi siciliani amiamo tenere nascosto ciò che di più bello ci appartiene. Ecco, l’arabesca non è altro che questo”.

 

Pacato e timido uno, vulcanico e travolgente l’altro, Biagio e Damiano si rubano quasi le parole accavallandosi tra Orlandi, Rinaldi e le scuole di carradori; inondando il silenzio di aneddoti e colori, stilemi ed equilibri cromatici. Parlano di due scuole principali siciliane che hanno decretato per grandi linee gli stili diversi della pittura su carretto: la scuola catanese più barocca e roboante e la scuola palermitana più arabeggiante e geometrica. E poi sottolineano come da queste scuole di mastri carradori ne siano nate molte altre a loro volta scevre dalla scuola madre sia nelle regole cromatiche che in quelle stilistiche. Lo stile Ragusa ad esempio più incline al liberty mentre lo stile Vittoria più orientato verso la stilizzazione delle forme, per certi aspetti quasi naïf. “Sebbene grandi stilisti, con cui abbiamo anche collaborato, abbiano portato questa ventata di sicilianità nel mondo, molto spesso la mancata conoscenza delle regole che stanno alla base di questa tradizione ha fatto loro confondere stili e scuole creando una disomogenea caricatura d’arte”. E in effetti, dietro i colori sgargianti, dietro le immagini nitide e cadenzate, dietro quel gioco policromatico che ipnotizza, vi è non soltanto uno studio certosino delle ferree regole a cui il carradore deve rifarsi, ma soprattutto uno studio letterario, agiografico, operistico e storico di grande respiro. Dal ciclo carolingio alla vita dei santi, dalla “Cavalleria rusticana” ai “Vespri siciliani”, passando per la guerra in Africa, le sponde esterne del carretto hanno raccontato, di paese in paese, tra distese verdeggianti e porti di mare, il mito, la tradizione, l’inganno e il sogno.

 

L’arabesca, l’ornamento che sta sotto il carretto: è praticamente invisibile ma è una delle parti più ricche di cesellature e decorazioni

“Neanche i francesi hanno la conoscenza che abbiamo noi siciliani del ciclo carolingio”, dice Damiano mentre Biagio lo incalza: “I temi principali della Chanson de Roland in particolare e di tutte le chanson de geste, sono l’eroismo, il coraggio, la passione, l’avventura e la lealtà. Sono valori di cui ogni siciliano si sente impregnato come se gli appartenessero di diritto”.

 

Biagio mostra la sponda sinistra di una chiave; la follia di Orlando troneggia brillante. Ma non è Ludovico Ariosto a guidarli nell’andamento pittorico, non sono quegli endecasillabi odiati tra i banchi della scuola media a rimbalzare alla memoria, bensì le storie raccontate dai pupari, dai cantastorie nelle piazze di paese. Sembra di sentirlo declamare il puparo di turno, mentre con maestria muove i fantocci armati di scudi e durlindane. E sembra di vederli Orlando e Rinaldo pazzi d’amore per la bella Angelica sulle sponde di un carretto. Vividi, veri, fatti di sangue e carne, ieratici e fieri, protetti più che dalle armature dal loro coraggio, svaniti nei sogni ma impressi nel legno.

 

Sono affiatati i due carradori. E diventa impossibile non chiedere che origini abbia questo sodalizio artistico.

 

Lo stile Ragusa, incline al liberty, mentre lo stile Vittoria è più orientato verso la stilizzazione delle forme, per certi aspetti quasi naïf

Racconta Biagio: “L’occasione di creare una bottega nostra ci fu offerta per caso. Un giorno un imprenditore catanese mi commissionò un carretto sulla scorta di un esemplare costruito nel 1956 e considerato uno dei carretti siciliani più belli di sempre. Fu allora che chiesi a Damiano, che già lavorava in una bottega di Catania, di trasferirsi a Ragusa per aiutarmi in questo progetto che durò più di un anno. Da quel momento non ci siamo separati più”. E Damiano spiega: “Ci siamo trasferiti qui perché volevamo un posto nel centro storico che rievocasse le botteghe di una volta e al contempo risultasse visibile a quanta più gente possibile. Siamo riusciti a realizzare anche questo piccolo spazio dove riceviamo scolaresche e facciamo corsi e laboratori perché c’è un germoglio verde e fruttuoso, tanti ragazzi che vengono a fare lezione e poi finisce che non vogliono più andare via”.

 

Il fluido racconto di una Sicilia vista attraverso la luce dei colori pacifica gli animi. La ricerca di una perfezione stilistica, di una attenzione minuziosa al particolare è il segnale di un cambiamento che tocca questo lembo di paradiso servendosi dei suoi uomini migliori. Gli incendi, piccoli o grandi che siano, partono sempre da una scintilla. Nella magica confusione di questa bottega si fa nitida pure l’immagine di un pianoforte. Risuona l’eco lontana di una travolgente “Cavalleria rusticana”: “… E s’iddu muoru e vaju mparadisu, si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu”. Lì, in quel verso, l’eroismo poetico della Sicilia riesce a superare e a sfidare persino la morte.

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