Cose visivamente ricche e complesse, ma di decodifica semplice, domenica scorsa alla sfilata di Dolce&Gabbana (foto LaPresse)

Dov'è l'ispirazione

Fabiana Giacomotti

Come perderla o trovarla tra creatività e mercato. Non tutti pazzi per le suggestioni ecclesiastiche e siciliane di Dolce&Gabbana

Domenica 25 febbraio, sotto un boccascena di gesso di gusto barocco, i Dolce&Gabbana hanno fatto sfilare una colossale collezione di generica ispirazione ecclesiastica. Cose visivamente ricche e complesse, ma di decodifica semplice: molti putti boccoluti della scuola di Melozzo da Forlì che già piacevano a Elio Fiorucci stampati e ricamati su t shirt e vestiti; molti ampi pannelli in forma di mitra vescovile rovesciata applicati a mo’ di grembiulino sulle gonne corte; una maglietta con la scritta “fashion sinner”, peccatrice della moda; un paio di kamilavkion ortodossi indossati su calzette a rete e tacchi a spillo. Cose semplici, appunto, con un sontuoso colpo d’occhio. La decana della cronaca di moda Suzy Menkes, che negli ultimi anni ci era parsa molto ecumenica, per una volta ha espresso un filo di perplessità sul proprio account Instagram: “‘Corpi celesti’ è la parola d’ordine per il Met Ball e la mostra di maggio. Non sono sicura che Anna approverebbe queste creazioni di D&G”. Eppure, la coppia creativa ha già superato il vaglio di “Anna”, cioè del direttore di Vogue America Anna Wintour, nonché del curatore Andrew Bolton, tanto che nelle gallerie del Metropolitan Museum dedicate all’arte bizantina, per la prima volta aperte alla contaminazione del vestire insieme con il chiostro di ispirazione neogotica, verranno esposti alcuni abiti ripresi dai mosaici del Duomo di Monreale della collezione autunno-inverno 2013-2014.

 

La sfilata di domenica era un ovvio tentativo di agganciare la nuova collezione al prevedibile successo della mostra a New York

La sfilata di domenica dei Dolce&Gabbana, anticipata da un volo di borsette su droni illuminati come fuochi fatui, era un ovvio tentativo di agganciare la nuova collezione al prevedibile successo della mostra del Met, presentata il giorno successivo a Palazzo Colonna, a Roma, alla presenza del cardinale Gianfranco Ravasi, che vi ha tenuto una puntualissima e a tratti rivoluzionaria lectio sui rapporti fra moda e chiesa cattolica (vedere Foglio.it del 26 febbraio). Di certo, mentre il pubblico giovanissimo e di varia estrazione geografica e culturale applaudiva la collezione, senza alcun dubbio felice di aver compreso perfettamente e senza sforzo alcuno quello che aveva davanti agli occhi, i cultori della moda mediata, di ispirazione e non di riproduzione, insomma chi vorrebbe indossare qualcosa di diverso da quello che si potrebbe trovare sulla bancarella di un venditore di souvenir di fronte alla cattedrale di Palermo, hanno espresso gli stessi dubbi di Suzy Menkes. Hanno continuato a farlo per la sfilata di Dior, costosa rivisitazione dei capi di strada del 1968 (davvero stiamo ancora vedendo il simbolo della pace tricottato sui maglioni di lana spessa?), ma non l’hanno fatto invece per Gucci, per Prada, per Yves Saint Laurent e nemmeno per Missoni che invece, dal 1968 e da quella prima ondata di contaminazione fra generi, culture ed energia, ha tratto una collezione moderna, desiderabile e niente affatto didascalica, a dimostrazione che nella moda, a dispetto del celeberrimo adagio di Thomas Edison, l’ispirazione è tutto e la traspirazione marginale. Sudare di braccia e imperlarsi la fronte con duecento vestiti e interi campionari non serve: serve trasmettere un messaggio nuovo, sedurre l’immaginazione, occupare gli spazi dell’emozione, solleticare l’intelligenza e il gusto della scoperta, quando si può.

 

Fatica, impegno, abilità interpretativa: Pierpaolo Piccioli di Valentino ne ha dato una prova magistrale nella collezione couture

Con l’ispirazione si conquistano i titoli dei giornali, i premi per il miglior fashion film, le richieste di prestito dai curatori museali e tutte le qualificazioni necessarie per costruire il “valore intangibile” più richiesto e indispensabile, il brand. Per le cose pratiche, tipo vendere, interviene il merchandiser; tocca a lui rendere il lampo di genio commercializzabile nella forma di sneakers adatte a essere calzate fuori da una show room, di abiti che valorizzino le forme e anzi le esaltino e anche di berretti di lana talmente desiderabili da poter essere inscritti a bilancio già alla prima uscita in passerella, e così avrete capito che stiamo parlando della sfilata di Gucci e in seconda battuta di quella di Prada che, dopo qualche stagione di rollii e beccheggi, ha ritrovato il suo nocchiero saldo sul ponte di comando, brava Miuccia Prada. Senza Jacopo Venturini, strappato un paio di anni fa a Valentino dove ricopriva la carica di direttore mondo della linea prêt-à-porter, è improbabile che il genio di Alessandro Michele avrebbe trovato la canalizzazione giusta per trasformare la sua indagine sui rapporti fra il sé onirico e quello reale in capi e accessori desiderabili anche per chi non sa che quest’anno, per esempio, si festeggia il bicentenario della pubblicazione del “Frankenstein” di Mary Shelley, oppure per chi non ha mai letto le “Tentazioni di Sant’Antonio” di Flaubert o, ancora, per chi si è domandato da dove e perché mai in sfilata comparisse quel cucciolo di drago fra le braccia di una modella, dimenticando la tradizione pittorica medievale di santa Marta o, più banalmente, la “leggenda del cucciolo di drago in bottiglia”, fatterello della cronaca inglese di qualche anno fa (fra l’altro, informazione di orgoglio patrio, il draghetto esce da Makinarium, un laboratorio romano che lavora anche per Hollywood).

 

Nella moda, a dispetto del celeberrimo adagio di Thomas Edison, l’ispirazione è tutto e la traspirazione marginale

Come nell’arte, ma con l’aggiunta dell’esigenza produttiva, nella moda l’ispirazione è dunque fatica, impegno, abilità interpretativa, uso accorto degli studi classici, quando vi sono, o umile e laborioso recupero delle lacune. Pierpaolo Piccioli di Valentino ne ha dato una prova magistrale nell’ultima collezione couture, traslando i colori brillanti, setosi della Visitazione del Pontormo e le seduzioni delle piume e delle mantelle dell’atelier proto Novecentesco di Lady Duff Gordon in forme perfettamente moderne e, quadratura del cerchio, del tutto assimilabili alla storia del fondatore della maison, che infatti sedeva commosso in prima fila. Qualcun altro, come i Dolce&Gabbana, azzera questo processo: quello che si vede è anche quello che c’è all’origine del processo creativo e che chiunque di noi può trovare sui libri di storia dell’arte e nelle botteghe artigiane. La tradizione vetero e neo testamentaria dei mosaici di Monreale, i carretti siciliani, le vedove delle cartoline, con solo qualche leggera variante interpretativa sul modello oleografico più noto e condiviso. Qualche anno fa una studentessa della Sapienza, siciliana orgogliosa e, per ragioni d’età e di obiettivi, per nulla appiattita sul pensiero unico pubblicitario, li prese tutti ad esempio discutendo una tesi di estetica che lavorava attorno al tema cardine degli stereotipi culturali nella moda: l’impianto, ottimamente sviluppato, metteva a confronto l’immagine dell’isola proposta ai Dolce&Gabbana con quella della Sardegna di Antonio Marras, “stilista capace di redimere la tradizione grazie a una reinterpretazione critica”: provò a inviarlo a qualche rivista, senza alcun seguito. Qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare che la moda non sia “filosofia per tutti”, come sostiene invece Fritz Allhof, docente di filosofia della Western Michigan University, e che, secondo quanto abbiamo avuto modo di osservare sempre sul Foglio circa un anno fa, non tutti i clienti della moda a tre e quattro zeri desiderino lambiccarsi come analisti e storici sui significati di un abito oltre a pagare caro per assicurarseli, o che abbiano il tempo e la voglia di risalire motu proprio al moodboard di una collezione, la famosa lavagna sulla quale i designer appuntano suggestioni e ispirazioni che poi trasferiranno in linee vestimentarie e accessori. Però, e invece, è proprio questo che la moda dovrebbe dare, e che nei suoi migliori esempi ha dato, da secoli: cultura ed emozioni da mettersi addosso. In caso contrario, basterebbe scendere al mercatino sotto casa o collegarsi a qualche sito di abbigliamento, dove si troveranno vesti perfettamente adatte a ripararsi dal freddo e dall’indecenza, talvolta persino ricamate e arricchite da cristalli variopinti.

 

Dopo qualche stagione di rollii e beccheggi, Prada ha ritrovato il suo nocchiero saldo sul ponte di comando, brava Miuccia Prada

La moda dovrebbe essere un’altra cosa, e non solo per giustificare il proprio prezzo. Qualche anno fa, negli atti di un convegno sulle dimensioni filosofiche dell’abbigliamento, Andy Hamilton, lettore di filosofia all’Università di Durham, provocò l’uditorio con la seguente questione: “Le clave erano oggetti di design?”, cioè in quale percentuale il cosiddetto “contenuto di design” è utile e necessario per giustificare prezzo e status di un oggetto e quanto invece la funzione sopperisce all’estetica o, almeno, la precede? Il punto non è ininfluente, anche perché ormai capita di ascoltare riferimenti al “direttore creativo” anche al mercato rionale, per una gonnella di cotone inopinatamente venduta a cento euro: “Questa, signora, è fatta da un designer che lavora anche per il marchio XY”, va da sé sotto mentite spoglie. Per designer di moda riconosciuti, la questione è dunque e inevitabilmente capitale. E per questo, confondersi con la proposta del primo banco del mercato del lunedì di san Marco, pur frequentatissimo dalle signore milanesi, può rivelarsi, sul lungo periodo, una cattiva scelta.

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