Ronald Lauder (foto Wikimedia Commons)

Il signore dei Klimt

Michele Masneri

Ebreo, ricchissimo, sommo collezionista. All’università lui e Trump andavano a lezione in gessato. Incontro a Roma con Ronald Lauder

E’ alto, ha un doppiopetto scuro, camicia bianca, spilletta con la bandiera americana, gemelli d’oro e lacca nera probabilmente inestimabili: calzini corti con dei fagiani. E’ a Roma per parlare alla conferenza dell’Osce sull’antisemitismo, plana col suo aereo privato con tre persone di scorta e un ufficio stampa: come un capo di Stato. Ha visto il Papa, Alfano, qualche segreto potente. Ha trovato il tempo di fare un giro dalla regina degli antiquari Alessandra Di Castro (gli antiquari lo aspettano come la madonna pellegrina): Ronald Lauder adesso qui incastrato in una poltroncina di un hotel romano troppo piccola per la sua stazza ha la simpatia degli americani veramente ricchi che hanno vissuto in Europa. E’ ricco come una manovra di bilancio (3,5 miliardi di dollari), è un wasp riluttante, wasp impossibile perché in realtà è ebreo, ebreissimo, è una specie di Papa laico degli ebrei in quanto presidente del World Jewish Congress, il più vasto consesso ebraico mondiale.

 

Presidente del World Jewish Congress. Affascinato dall’arte austriaca, dall’espressionismo e dalla finis Austriae

E’ anche il più grande collezionista d’arte del mondo, particolarmente affascinato – o ossessionato – dall’espressionismo e dall’arte austriaca e dalla finis Austriae, ha fatto incetta di tutti i Klimt e Schiele del globo, collocati tra i suoi appartamenti newyorchesi e – quando ha finito le pareti – la Neue Galerie, lo scicchissimo museo a Central Park che lui ha fondato e di fatto possiede, con quelle misteriose alchimie fiscali-finanziarie americane. Di Klimt vanta il celebre “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”, il quadro sottratto ai nazisti protagonista del film “The woman in gold”. Ritratto che per settantacinque anni era stato appeso nel palazzo del Belvedere a Vienna, fino a quando un’oscura erede, Maria Altmann (impersonata da Elen Mirren), è riuscita a riaverlo dal governo austriaco. E poi, subito dopo, l’ha venduto a Lauder, per centotrentacinque milioni di dollari. Per un po’ è stato il quadro più costoso del mondo. “Per tre mesi”, sospira Lauder, che a Vienna è stato a un certo punto pure ambasciatore. “Durai solo due anni, un numero inverosimile di smoking consumati, ma non ero simpatico al governo e il governo non era simpatico a me”. “Kurt Waldheim, il presidente, ex segretario generale delle Nazioni Unite, lo conoscevo da New York e sapevamo dei suoi trascorsi nazisti. Non andai alla festa di insediamento”, dice Lauder. Il Governo viennese invece pare che aprì un’inchiesta sugli acquisti d’arte di Lauder a Vienna, ma “io con dodici acquerelli ero arrivato e con dodici acquerelli ripartii”, dice lui. Il turbocapitalista americano con corpulente guardie del corpo che si aggiravano per le piccole boutique antiquarie viennesi non era amatissimo. Lui intanto restaurava monumenti, apriva scuole, imparava a fare la Sacher Torte, “ah, sì, deve assaggiarla, io la faccio un po’ più morbida, quella classica è troppo secca. Invece lo strudel non mi è mai venuto bene”. In Austria ha anche lanciato la sua prima fondazione, la Ronald S. Lauder Foundation che oggi opera in sedici paesi, e segue l’istruzione di decine di migliaia di studenti in giro per il mondo, anche in Italia. A Vienna ci era finito grazie a Reagan. “Dal 1982 al 1985 avevo lavorato per la Nato soprattutto nell’Europa dell’Est, e a un certo punto il presidente mi chiese di rappresentare gli Stati Uniti in Austria, e io accettai”.

 

“Reagan e Nancy erano amici dei miei”, dice e “i miei” erano poi soprattutto Estée Lauder, la ragazza cecoslovacca che ha inventato le creme di bellezza globali che ancora oggi portano il suo nome, quotate a Wall Street, e che la famiglia ancora controlla. “Aveva iniziato come attrice, ma poi si era buttata su questa nuova attività, dal nulla. Lavorava sedici ore al giorno, io mi svegliavo la mattina alle sette e lei era appena rientrata dal suo laboratorio. A inventare i suoi prodotti la aiutava un mio prozio chimico che faceva esperimenti”. “I miei si erano sposati, poi divorziati e poi risposati sempre tra loro, io nacqui quindici mesi dopo il loro secondo matrimonio, sono il figlio dell’amore”, dice tutto contento, forse rispetto al fratello primogenito che si chiama Leonard ed è la parte seriosa della famiglia e tiene in piedi la baracca. “Da bambini i prodotti di mia madre li provavo tutti, vede qui? Niente rughe” dice toccandosi gli occhi”. “So fare anche un makeup. Una volta in una televisione israeliana mi stavano truccando e non erano molto bravi, così ho fatto da solo, e l’intervistatrice mi ha chiesto se potevo dare una sistematina anche lei, e naturalmente l’ho fatto”. L’azienda oggi è in mano al nipote William oltre che a un ceo italiano, Fabrizio Freda, mentre il nostro, di Lauder, si è sempre occupato d’arte, beneficenza, politica. E’ il boss dei meglio musei newyorchesi, è stato presidente del Moma e del Metropolitan, ma la Neue Galerie, la sua scatola dei tesori dedicata all’arte e al design tedesco e austriaco, è il suo preferito. “Così si chiamava un piccolo museo temporaneo a Vienna, e il nome non era registrato, così decidemmo per quello”; e Serge Sabarsky, cui oggi è intitolato il bar del museo, dove primarie sciure di Central Park vanno a mangiare Sacher con delle panne impalpabili, “era il mio mentore”, un rifugiato austriaco che aveva fatto parte di un circo (pare il teatro di Sabbath di Philip Roth).

 

Infanzia invece da Wes Anderson: “A undici anni andavo tutti i giorni al Moma, c’era un cartello che diceva ‘bambini sotto i dodici anni gratis’, e mi piazzai lì ogni giorno per tre mesi, finché il cartello non cambiò in “bambini sotto i dodici anni solo accompagnati”. Avevano capito. “Mi fermavo e guardavo i quadri per ore, una cosa che faccio ancora oggi, solo così impari a capirli, impari ad avere una memoria visiva: me l’ha insegnato Bernard Berenson”. “La mattina mia madre andava in laboratorio e io andavo alle aste. Lei naturalmente non sapeva niente di tutto ciò”. Il primo acquisto che ha fatto, a sedici anni, è stato un Van Gogh, chiedendo un prestito in banca e falsificando la sua data di nascita. Falsificare ancora gli piace, “faccia la sua firma”, dice, e poi la ricopia sul quadernetto che abbiamo davanti. Vede? La potrebbe portare in banca!” (per la verità non è proprio identica, ma lui dice che è perfetta, è molto orgoglioso). “Avrei voluto anche essere artista”, sospira. Ma è stato molte altre cose più interessanti.

 

Al Pentagono e ambasciatore a Vienna per Reagan. Innumerevoli iniziative umanitarie: è un George Soros repubblicano. 

Anche un pezzo grossissimo alla Difesa, sempre per Reagan. “Negli anni del Pentagono andavo alla National Gallery in pausa pranzo e stavo lì a guardare i quadri, e un giorno in ufficio tutti stavano incollati alla tv, che roba è, chiesi: la finale dell’Nba. Io non sapevo cosa fosse l’Nba, c’erano tutti questi militari, sessanta uomini in uniforme, e mi hanno chiesto se mi piaceva lo sport, io ho detto di no. Che cosa ti piace, allora, mi hanno chiesto, e io ho risposto: l’arte e i libri”. “Il giorno dopo il segretario alla Difesa mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha detto: la prossima volta che ti chiedono quali sono i tuoi hobby, dì che ti piace sparare agli orsi”. Ma prima di arrivare al Pentagono era andato naturalmente a scuola e poi all’università. E’ probabilmente l’unico bambino che si sia mai fatto trasferire in una scuola più difficile. “Andavo in un liceo privato, ma mi feci spostare a una pubblica nel Bronx, era la miglior scuola del mondo, prendevano uno studente su centosessanta”, dice. E si assume (da solo) un insegnante di tedesco.

 

Il padre stupefatto che si trova un giorno l’istruttore chiede come mai il figlio adolescente abbia bisogno di un professore di tedesco il mercoledì e il venerdì. “Perché quello di francese viene il martedì e il giovedì”, è la risposta. Lauder vuole raccontare però una storia (“mi raccomando! off the record!”). A Lauder piace tantissimo raccontare storie, il suo ufficio stampa è terrorizzato o forse è un duetto molto sperimentato: “La vera ragione per cui parlo bene tedesco è che poi ho avuto una fidanzata tedesca, e poi mi sposai, e dissi a mia moglie che volevo imparare anche l’italiano, e le assicurai che avrei preso una maestra italiana di cinquant’anni, grassa, con dei baffi. Poi un giorno mia moglie torna in anticipo e mi piomba in ufficio e trova questa ragazza, venticinque anni, gambe lunghissime, e dico: era malata, questa è sua nipote” (qui siamo più in Mordecai Richler).

 

Ma prima ancora del matrimonio, un anno passato in Francia, bohème, e poi Danimarca, innumerevoli viaggi in Europa dell’Est, la prima volta a Vienna (colpo di fulmine). E l’università, alla Penn, con un compagno di studi peculiare: Donald Trump. “Eravamo gli unici due studenti ad andare a lezione in gessato”, dice lui che del presidente è un gran supporter; “ma in realtà ci siamo frequentati di più dopo la laurea. “Era un anno o due più giovane”. “Un uomo molto intelligente, sa esattamente quello che vuole”, assicura, serissimo, forse credendoci. “E le dico una cosa: nessuno diventa presidente degli Stati Uniti per caso. Lui ha battuto sessanta candidati alla nomination repubblicana. Come Obama ha portato a votare molti democratici, Trump ha portato a votare molti repubblicani che non avevano mai votato”. Lauder è favorevole al trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, dice che le teorie russe son paccottiglia. Gli chiediamo, in quanto collezionista, se gli pare giusto che il Guggenheim Museum, richiesto dalla Casa Bianca di imprestare un Van Gogh, abbia offerto invece al Presidente un cesso d’oro dell’italiano Maurizio Cattelan. “Non mi sembra corretto, è sempre il presidente degli Stati Uniti, ti può piacere o non piacere, ma devi portargli rispetto al cento per cento”. “Non ha un’oncia di antisemitismo in corpo!” dice ancora Lauder del suo amico Trump, e “lui sì che ha a cuore la causa di Israele, non come Obama”. C’è qualcosa che lo fa assomigliare a Reagan, che lei ha conosciuto bene? “Reagan era un richiamatore di folle, e anche lui lo è. E il suo taglio delle tasse è importantissimo”.

 

Lauder infatti non è solo l’uomo che guarda i quadri: dopo le avventure da ambasciatore ha messo su un sacco di business nell’Europa dell’Est, oltre alle sue innumerevoli iniziative umanitarie (è un George Soros repubblicano). “Mi ero fatto molti contatti, e lì c’erano vaste imprese che stavano privatizzandosi”. In particolare mette su cementifici, e una rete di tv private che poi venderà a Time Warner. “Si chiamava Center European Media, siamo arrivati ad avere venti milioni di spettatori. Quando sono arrivato io c’era un solo canale, e il canale più noioso della storia. Noi importammo il telegiornale, notizie vere”. Diventò il Berlusconi dell’Est. “No, è Berlusconi che diventò il Lauder italiano”, dice, serio, e poi ride (“L’ho incontrato. Molto interessante”. In Italia ha incontrato tutti, da Mattarella in giù, il Papa cinque volte, ma il suo preferito è Napolitano, pare di capire: “E’ fa-vo-lo-so”, “mi avevano detto che era un comunista”, lo stupore dei capitalisti esteri per i comunisti italiani non cessa mai, come quello per la fontana di Trevi).

 

E’ stato presidente del Moma e del Metropolitan, ma la Neue Galerie, dedicata all’arte e al design tedesco e austriaco, è la sua preferita

Ma se ha tutto questo fiuto per gli affari non poteva rimanere dunque a occuparsi delle aziende di famiglia, già che c’era? Si è anche occupato di Clinique, uno dei marchi di casa, contribuendo a lanciarlo, e per un po’ dirigendolo proprio. “Oh, adoro il business, ma non volevo passare tutta la mia vita a fare quello! Lei vorrebbe passare la sua vita a fare quello che fa?”. Oh, sì, magari. “Come, non vorrebbe comprarsi il suo giornale?” (è sconvolto). Veramente no. “Perché no?”. Perché è meglio scrivere. “E’ un bravo scrittore?”, aggrotta il sopracciglio cespuglioso. Chiede ai suoi che giustamente non sanno che dire. “Ha scritto un libro?”, interroga. Sì, un romanzetto (adesso Lauder ci intervista anche). “E di che parla?”. Mah, è una storia d’amore. Lui apre per la prima volta le ampie braccione gessate con i grossi gemelli, come un grosso volatile: “Ah, che idea originale! Proprio unico! C’è almeno del sesso?” (il suo ufficio stampa interviene, ehm, mister Lauder, possiamo parlare di quando ha corso per la carica di sindaco di New York?), Lauder dice, “ah, vede che bravo il mio assistente, è democratico! Loro sono così efficienti e corretti”, e poi, “dunque, vediamo: finita l’esperienza a Vienna volevo restare in politica ma non volevo correre per il Congresso e a New York, di sicuro non avrebbero fatto vincere un repubblicano, ma s’era liberato il posto di sindaco e così ho deciso di provare, sapevo che non potevo vincere, c’era Rudolph Giuliani che si candidava, ma ho voluto provare, fare un po’ di comizi, parlare con la gente”. “Andavo in giro a dire ‘salve, sono Ron Lauder, corro da sindaco di New York, cose così’”. Pare che abbia speso 14 milioni di dollari per la campagna. “Ho preso comunque il 40 per cento alle primarie”. “Solo una volta qualcuno mi ha riconosciuto, ero nella metropolitana, viene questo tipo e mi fa: io ti conosco… sei il sindaco Dinkins, mi dice. Dinkins era il sindaco in carica. Di colore”.

 

Il primo acquisto che ha fatto, a sedici anni, è stato un Van Gogh, chiedendo un prestito in banca e falsificando la sua data di nascita

Mai pensato di correre per la Casa Bianca? “No, quello che faccio ora è più interessante. Sono più potente”, scherza. Poi si lascia andare. “Se fossi un politico sarei però libertario, mi piace Ayn Rand, c’è troppa burocrazia, troppo controllo sulle persone oggi”. (Poi diventa di nuovo serissimo). In fondo è a Roma per parlare di antisemitismo, e pochi giorni fa ha fatto un discorso molto duro. “Ci sono momenti storici in cui le persone sfogano le loro frustrazioni contro gli ebrei. Guardate ai segnali: sessantamila persone che fanno il saluto nazista in Polonia come è successo due mesi fa. In Francia, oltre mille aggressioni antisemite in dieci anni. La settimana scorsa, un tribunale tedesco ha deciso che tirare molotov su una sinagoga è un legittimo atto di critica contro Israele. Può succedere ancora? Sì”. “Siamo preoccupati per questo? Sì”, dice Lauder, disincastrandosi dalla poltroncina. Adesso deve scappare via.

 

Lui ha anche una fondazione sull’Alzheimer, un centro alla Penn University per aiutare gli studenti di economia, più innumerevoli altre attività. “Ho vissuto almeno tre vite, io”, dice, con questo conto al ribasso, soddisfatto, stirandosi: e ci sono tanti quadri ancora da guardare in giro per il mondo.