Il regista americano Wes Anderson: nato in Texas, risiede per la maggior parte dell’anno a Parigi. “Grand Budapest Hotel” il suo ultimo film

Wes all'Esquilino

Michele Masneri
E’ arrivato in Italia con l’Orient Express e bauli di un secolo fa. Alla Festa del cinema ha fatto faville: è il regista dei “Tenenbaum”

E’ arrivato naturalmente in treno, Wes, che odia l’aereo; alla stazione Termini, con un Frecciarossa e prima ancora con l’Orient Express, quello restaurato, da Parigi, dove risiede la più parte dell’anno. E peccato che ad accoglierlo a Roma sia stata una stazione Termini moderna coi marmi mazzoniani, e forse tassinari anche abusivi e non invece facchini africani in uniforme blu col filetto d’oro come a Milano, con quelli sarebbe impazzito Wes.

 

Wes Anderson, il poeta della nostalgia foderata in pelle, è stato a Roma. Una Roma naturalmente non contemporanea, una Roma-mondo tutta sua, un “Mondo Monda”, come il cortometraggio dedicato al suo alter ego italiano, Antonio Monda, personaggio dei più andersoniani e direttore della Festa del cinema che l’ha celebrato. Chissà se c’era Mondo Monda ad accoglierlo sotto l’ala mazzoniana; e piace di più però immaginare Anderson, col suo seguito di bauli, spostato un secolo in là, come un Emile Zola che come lui arrivava da Parigi, in treno, nelle annotazioni e making of del suo romanzo “Roma”. Lì c’era una Termini nuova di zecca, tutta di ferro e liberty, appena finita su progetto di Salvatore Bianchi, 1874, ben più adatta all’epopea ferroviaria cara al regista texano (gli è presa la mania dei treni, a Wes, ultimamente. Raccontano che anche tra New York e Los Angeles prenda in affitto un vagone speciale, con salottini e disimpegni, e vagheggi addirittura di comprarne uno, insieme all’amico Roman Coppola. Bisognava dunque portarlo alla nuova ferrovia pontificia appena ripristinata, che conduce dalla stazione vaticana a Castel Gandolfo, ma non aveva tempo).

 

Non ha neanche preso in affitto, questa volta, quella vecchia villa patrizia al Gianicolo, Anderson, come durante i cinque mesi di lavorazione romana delle “Avventure acquatiche di Steve Zissou”, suo film del 2004, né al suo albergo romano preferito, l’Inghilterra, ma è sceso invece al Locarno, dietro piazza del Popolo, in una suite anche modesta, ma a cui è legato per dei dettagli segretissimi. Ed è stato protagonista di un pomeriggio memorabile all’Auditorium, Wes, un dialogo insieme alla scrittrice bestsellerista Donna Tartt intorno al cinema, naturalmente architettato da Mondo Monda, e forse per estrema cortesia ha scelto come film del cuore “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, e lì qualcuno si è stupito vedendo quei grandi fenicotteri in post-produzione così diversi dall’estetica rarefatta e biedermeier del regista dei “Tenenbaum”. Ma forse era l’estrema cortesia di un gentiluomo del sud verso un altro gentiluomo del sud, e ospite eccellente: le giornate romane andersoniane sono culminate infatti in una cena nel celebre attico di piazza Vittorio di Sorrentino. Lì, il fatale incontro tra le nostalgie da finis Austriae del maestro texano e quelle romane-partenopee del maestro del Vomero; e nella gran terrazza aggettante sul quartiere Esquilino smandrappato e lancinante alle spalle della stazione Termini, Anderson ha gustato l’ospitalità soprattutto della signora Daniela D’Antonio, giornalista di Repubblica, pasionaria di comitati civici di riqualificazione del suddetto Esquilino, ma soprattutto gran cuoca, grande autrice di polpette, un po’ regina della comunità andersoniana del quartiere, una Etheline Tenenbaum esquilina insomma.

 

E chi c’era, a quella cena, che metteva insieme Zweig e fenicotteri, giura che sia stata indimenticabile. Nel vasto terrazzo sopra quella piazza magica, luogo di patetiche urbanizzazioni umbertine in grande stile per aristocrazie impiegate, oggi popolate da intellettuali e creativi scacciati da altri quartieri più cresciuti di prezzo, forse Anderson avrebbe, guardando bene, potuto trovare spunti per cento film e cento messinscene. Non solo la piazza, con dentro la sua porta Magica, antico stipite divelto dalla villa del marchese Palombara, secentesco amico burlone della regina Cristina di Svezia, con iscrizione alchemica per trasformare il fieno in oro; nessuno ci è però mai riuscito, e nessuno è mai riuscito neanche a tenere in ordine i giardini, regno oggi dei tossici e della bottiglia multietnica; degrado contro cui si battono tanti comitati (un’altissima densità di comitati, qui), e in prima linea proprio la signora Sorrentino, che qualche mese fa partecipava a un’ennesima riunione di quartiere in cui il comune presentava una riqualificazione della piazza di cui poi non s’è fatto nulla (però in una location che avrebbe fatto innamorare Wes, l’Acquario romano, “stabilimento di Itticultura”, piccolo pantheon con mosaici ittici che doveva imitare i grandi acquari delle capitali europee nell’anno del Signore 1880, oggi deliziosa Casa dell’Architettura circondata da utenti di Tavernelli extra Schengen).

 

“Si vede che è un quartiere diventato cool da poco”, pare abbia detto Donna Tartt, l’autrice del “Cardellino”, affacciata anche lei alle finestre sorrentiniane, guardando questo Central Park pre-Giuliani, con una pizzella in mano. Ma quanto materiale per Wes, però: dalla grande terrazza si sarebbe affacciato su Mas, i Magazzini allo Statuto, sui suoi interni lisi e le sue insegne immobili dal 1958 (“la vedi la U di statuto, è bruciata nel ’78, non l’hanno mai cambiata”, dicono gli esperti”), che espone e vende divise e completi da hostess di compagnie aeree estinte, e camici da chirurgo e smoking da camerieri e tende canadesi che non hanno niente da invidiare a “Moonrise Kingdom”. Ai Magazzini allo Statuto anche reparti Mas Oro e Mas Pellicceria, e scale mobili a portare in seminterrati muscosi e inquietanti, e di fronte, una pasticceria Regoli con packaging e lettering d’epoca, come la Wendel di “Grand Budapest Hotel”, e pacchettini forse più leziosi ed eleganti.

 

Oppure, girando sotto i portici di piazza Vittorio, tra l’ambulante dandy che vende collezioni d’accendini Bic, penne, un vasto assortimento di annate di Potere operaio, leggendo un “Gattopardo” prima edizione Feltrinelli. Tra le enoteche cinesi e le banche solo per stranieri, Anderson avrebbe trovato la cappelleria Venturini, con vetrinette di cristallo molato, un negozio incapsulato come in una macchina del tempo o in una scatola di Joseph Cornell (1903-1972), surrealista americano inscatolatore d'oggetti che Anderson ama. Alcuni intellettuali esquilini stanno tentando di rilevarla e farci un bar, lasciando però tutto com’è, perché sono nostalgici: gli intellettuali esquilini parlano sempre e solo dell’Esquilino, di come è stato e di come dovrebbe essere, perché sono nostalgici come personaggi di un film di Wes Anderson.

 

“Vorrei vivere in un film di Wes Anderson / vederti in ralenti / quando scendi dal treno” cantano i romani Cani. Anderson è un american dreamer della razza di Henry James, di questi innamorati di un’Italia e di una Roma di eleganze stralunate alla Barzini, dove “molti vogliono ritirarsi dal rude caos della vita attiva, per preservare una romantica illusione di sé stessi, del proprio genio, bellezza, gusto, rango” (“The Italians”), insomma proprio come gli intellettuali dell’Esquilino, scacciati dal rione Monti con i suoi prezzi al metro quadro, o non pronti psicologicamente per il Pigneto.

 

E peccato che non sia arrivato nell’Esquilino nuovo di zecca di fine Ottocento, Wes, chissà se gli avranno raccontato la storia, molto jamesiana, della principessa Brancaccio, nata Elizabeth Hickson Field, ricchissima newyorchese che giunse a Roma nel 1870 col suo milione di dollari e la sua ambizione di sposare il suo principe, salvo scoprire poi che non aveva né palazzo né castello (altro che Imu, altro che i Colonna di Reggio della “Grande bellezza”). Facendo allora costruire in fretta e furia su via Merulana un palazzo Brancaccio neo-fiorentino e neo-rinascimentale però con tecniche moderne, riscaldamento centralizzato e cemento armato, e portandosi mamma e papà newyorchesi e molto andersoniani, si immagina, che borbottavano sulle spese pazze della figlia, poi dama di palazzo della regina Margherita, al primo piano di via Merulana.

 

Ma spingendosi oltre palazzo Brancaccio, Wes si sarebbe imbattuto anche verso il fatale Colle Oppio – regno d’eleganze novecentesche, lusso e voluttà come in una Zubrowka (lo stato immaginario austriaco di “Grand Budapest Hotel”) – e lì, puntare sul chiosco della sora Nunzia, baretto di semplicità pre-hipster, con poltroncine col filo di plastica, e il cameriere africano elegantissimo Mustafà.

 

Altro che bar Luce, disegnato da Wes alla Fondazione Prada milanese, e ricreazione di un tipico bar italiano; con lampade però simil Ikea e un tripudio un po’ stucchevole di amari e flipper e bonbon; molto meglio andar giù verso i viali fatali di casa Savoia (principe Umberto, Eugenio, Emanuele Filiberto) fino a un Palazzo del Freddo Fassi, fondato da un Fassi già gelatiere ufficiale del Quirinale, licenziatosi perché non volle tagliarsi i baffoni alla Adrien Brody in “Grand Budapest Hotel”, come richiesto dal protocollo sabaudo, e investì il tfr in una sua start-up poi di successo, oggi tra colonne, semicolonne, modellini in cartongesso di cassate e semifreddi, e il Telegelato Giuseppina con cui Italo Balbo portò scorte anche nelle sue trasvolate.

 

[**Video_box_2**]Intorno a queste meraviglie si muovono i Tenenbaum esquilini: artisti e creativi e “originali”, legati da vasti affetti e relazioni agrodolci come in un film di Wes Anderson: a partire dalla piazza e dal Grand Sorrentino Hotel: sotto i portici, nello stesso palazzo, ecco l’ex amico Matteo Garrone; e lo sceneggiatore Monteleone; e Claudio Santamaria protagonista del “Jeeg” di Gabriele Mainetti visto alla Festa del cinema di Roma. E verso il Colle Oppio, in un ex convento restaurato, l’attore andersoniano Willem Dafoe, che si vede spesso passeggiare verso la Coop, a piedi e non con la moto da assassino di “Grand Budapest Hotel” né con l’Alfa Romeo Gt Veloce di scena nel “Pasolini” recente.

 

Tutto intorno, tanti scrittori come Lorenzo Pavolini, e poi Elena Stancanelli, una Margot Tenenbaum esquilina, che si potrebbe immaginare a fumare sigarette sepolte sui tetti di piazza Vittorio, senza fenicotteri né il falco Mordecai, ma con più plausibili gabbiani anche molto grossi. E il ministro più andersoniano del governo Renzi, il ministro-romanziere Dario Franceschini, da poco trasferito nel quartiere, nelle vie dei poeti (Leopardi, Alfieri, Foscolo), in faccia ai palazzi “degli ori e dei pescecani” ormai inflazionati gaddiani. E l’ex premio Strega Francesco Piccolo, sulla piazza; e lo Strega in carica Nicola Lagioia, un po’ più giù verso porta Maggiore. Qualche mese fa fu rapinato, all’Esquilino, Lagioia, e raccontò il fatto, e dal racconto parve un rapinatore giovane, e alla fine rapinatore gentile e poco convinto, che si prese 50 euro al posto del computer, e se ne andò; un rapinatore in definitiva molto andersoniano (e “i cattivi non sono cattivi / davvero” cantavano del resto i Cani nella canzone “Wes Anderson”).

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