Gianni Versace nella fiction di Fox

Dimenticare Versace

Michele Masneri

Pure lo stilista ha la sua serie tv. Ma Miami preferisce non ricordare quella morte. Il no della famiglia

Che estate, il 1997. Forse l’ultima grande annata di delitti e morte di celebrity pre-iPhone, in analogico, da guardare tutti insieme ai telegiornali alla stessa ora in tv non smart. E materiale per complotti, documentari, film e fiction e docudrama per decenni successivi. Se Diana, che morì il 31 di agosto, ha già prodotto ingenti indotti e fatturati, adesso tocca a Gianni Versace, che perì due mesi prima, il 15 luglio, e ha anche lui finalmente la sua serie.

   

Si chiama “American Crime Story -The Assassination of Gianni Versace” e andrà in onda su FoxCrime (Sky, canale 116) dal 19 gennaio alle 21. Il regista è Ryan Murphy, già ideatore di sublimi cinepolpettoni come “American Horror Story” e “Feud”. Questo però è tratto dal libro-inchiesta “Vulgar Favors” della collaboratrice di Vanity Fair Usa Maureen Orth, che viene ripubblicato per l’occasione in Italia. L’edizione americana contiene soprattutto una deliziosa serie di errori: (“aveva come istruttore un prete di Lugano, Italia”; i suoi completi “Cerutti”, e così via) ed è tutto incentrato sull’assassino, Andrew Cunanan, che il 15 luglio del 1997 sparò al supremo stilista italiano sulle scale della celeberrima Casa Casuarina, a Miami.

   

La famiglia ha preso le distanze: Penelope Cruz fa una Donatella Versace da Bagaglino, fuma in tutte le scene, bullizza chiunque

Gianni come molti stilisti era anche un creatore di imaginifici real estate: comprò nel 1992 il casermone balconatissimo al centro della allora urfida South Beach, che dunque per primo riscoprì e gentrificò (comprò anche un hotel sgangherato accanto, per aumentare le cubature, facendo insorgere tutti i Fai e le società civili floridiane). Oggi la casa, con tutte le meduse ancora incastonate nelle cancellate, i capitelli e i mosaici gli affreschi e la piscina, è rimasta com’è, è uno strano hotel di sinistro charme, si chiama “V”, ha un ristorante che si chiama “Gianni’s” e un menu poco fantasioso, Insalata Gianni (15 dollari) con Lambrusco Vinaigrette; una Polenta (18 dollari) con pancetta e uova in camicia; orecchiette con Broccolini a 26 dollari. Si è provato l’estate scorsa a prenotare, sorvolando su questa italian-american cuisine, ma per pranzo o cena è sempre pieno, risposero; e in più tengono chiuso tipo il sabato, la domenica, il lunedì, quindi passa la voglia e l’estro, e si sospetta che sia tutta una copertura (e si immaginano portinaie cattive alla Kathy Bates in “American Horror Story”). La casa aveva poi tutto un pedigree autorevolissimo anche prima di Versace: costruita nel Trenta dall’erede della Standard Oil, che vi faceva la villeggiatura insieme al fidanzato architetto di giardini, disegnata in omaggio al palazzo del governatore di Santo Domingo, con ventidue camere per amici artisti (e la Casuarina derivava dalla raccolta di short stories di Somerset Maugham, “The Casuarina Tree”, che poi è un arbusto tipo Spelacchio). Molto prima delle rivalutazioni e delle Art Basel, due anni prima che Philippe Starck rifacesse l’hotel Delano, Versace aveva puntato sul mattone forse per quel certo non so che che impressiona e affascina ancor oggi gli italiani romantici: le moto senza casco, la sensualità e la sigaretta libera, il sudore e la mollezza, il déco franante. E Cuba davanti come una grande Sicilia: forse gli pareva d’essere in una Reggio Calabria un poco più cosmopolita.

   

Cunanan, mitomane, si convinse d'avere una strenua relazione con lo stilista, reo di non rispondere più ai suoi messaggi

La famiglia ha preso subito le distanze, come si dice, da questa serie, e si capisce: Penelope Cruz fa una Donatella Versace da Bagaglino, puntando su due elementi portanti: una camminata a gran falcata da camionista e un accento gutturale, che vorrebbe riprodurre il celebre idioma calabro-inglese, e il carattere ribaldo-pop, mentre viene fuori invece tutto un Almodovar strano e una malmostosità risentita. Lei fuma in tutte le scene, bullizza chiunque, soprattutto il fratello Santo e il fidanzato storico di Versace, Antonio D’amico, colui che soccorrerà lo stilista sulla scalinata di casa; è interpretato come tutti sanno da Ricky Martin, con tintura di capelli corvina che aumenta l’empatia nello spettatore. Nella finzione, Donatella/Penelope rimprovera molto Antonio/Ricky di non essere una vera famiglia per il fratello stilistico; proprio mentre negli Usa esce in questi giorni un servizio su AD sulla bella casa, molto borghese, con sala yoga e sala incisione, del vero Ricky Martin, che è sempre corvino ma con un taglio più giovanile, e un marito e prole a Los Angeles, e davvero si può dire quanta acqua è passata sotto i ponti, sembrano gli anni Cinquanta ma è solo vent’anni fa, e tutta la serie comunque sottolinea quanto fossero omofobi gli anni Novanta americani; il regista ha sostenuto che se le vittime di Cunanan fossero state etero, sarebbe stato preso prima. C’è molta impreparazione, effettivamente. Quando l’Fbi arriva nella casa Casuarina e c’è il povero D’Amico ancora tutto insanguinato dopo l’abbraccio finale col fidanzato sparato, gli chiedono, scusi, lei sarebbe? E alla risposta “boyfriend”, tutti degli sguardi allibiti, e poi giustificazioni: “sa, è tutto così nuovo per noi”. I federali si dicono anche: “Versace chi? Il cantante? “No, quello è Liberace”. Che pare un po’ strano nella Miami del 1997: mancano i fondamentali anche di cultura pop. E però non c’era ancora neanche l’iPhone e tutti si chiamano sul fisso e si fanno delle polaroid. Sul luogo del delitto arrivano subito i mitomani, però non essendoci ancora i social network non fanno granché, una strappa una pubblicità Versace e la intinge nel sangue dello stilista, una finta Donatella si aggira, una signorina vestita Versace si butta davanti alle telecamere.
 

   

  

Insomma pare davvero preistoria, per tutto: e anche l’assassino, quell’Andrew Cunanan su cui è incentrato il magnifico polpettone, aveva sempre avuto grosse difficoltà con la propria omosessualità, pur nella California post reaganiana. Ma si sa che dipende molto dagli Zip, anche da stato a stato. Cresciuto a San Diego, città di militari ancor oggi molto conservatrice e machista man mano che si scende giù verso l’erigendo muro antimessicano, con tutto un terziario e un indotto di marinaretti ma però molto “closeted”. Qui era nato appunto Cunanan, il serial killer ventisettenne che fa fuori Versace e poi sarà trovato sparato a sua volta (da sé stesso) pochi giorni dopo in una house boat sempre a Miami. In realtà Versace è solo l’apice della sua furia, che nella primavera-estate del 1997 lo porta a essere uno dei top-ricercati Fbi in quanto assassino in serie di: un suo ex fidanzato Jeffrey Trail, a cui ruba la pistola con cui sparerà poi a Versace. Un architetto David Madson, a sua volta ex fidanzatino. Poi il magnate dei grattacieli Lee Miglin, e poi incidentalmente un William Reese, ma solo per rubargli un’auto.

   

Trail viene ammazzato a martellate mentre Madson viene sequestrato e poi revolverato perché, come l’altro, a un certo punto si accorge che Cunanan racconta solo frottole. Si inventa origini “alte”, vaneggia: racconta d’essere figlio di un generale d’aviazione, pilota personale d’Imelda Marcos, e latifondista dell’ananas nelle filippine; e d’essere romanziere. Vuole tante attenzioni, in caso contrario spara.

   

Ricky Martin interpreta il fidanzato storico. Tutta la serie sottolinea quanto fossero omofobi gli anni Novanta americani

In realtà non ha mai fatto niente nella vita, se non fingere di essere qualcun altro, e nel frattempo fa la marchetta di lusso per qualche anziano, come il magnate Miglin, che viene massacrato e incerottato (lui ha la mania di incerottare tutti con questo grosso scotch, talvolta anche sé stesso). In realtà Cunanan era figlio di un ex marinaio filippino di nome Modesto, che provò la fortuna in Borsa, fallì, fuggì dal paese. Mamma invece depressa ipercattolica che di cognome fa Schillaci, originaria di Palermo. Il papà Modesto fa una rapida carriera da broker dopo dei corsi online e viene immediatamente cacciato perché vende azioni fasulle a delle vecchiette, ma si indebita per mandare il figlio nelle meglio scuole private: gli regala auto sportive prima che abbia la patente, e lo istruisce sui libri di galateo mentre la mamma tenta il suicidio un giorno sì e l’altro pure. Il suo sogno è che faccia il diplomatico, soprattutto vagheggia di farne un giorno il console americano nelle Filippine (“bastano un paio di milioni di dollari per ungere le ruote giuste”). Comprano case che non si possono permettere, dove il bambino prende la stanza dei genitori e loro dormono in una cameretta. Il padre gli dice: “Usa sempre un bastone da passeggio, solo quello ti dà vera classe”, e lui va a scuola col bastone da passeggio. Non c’è da stupirsi che sia diventato un assassino di stilisti.

  

A scuola va benissimo, “un vero intellettuale” secondo i professori, intanto si inventa già varie identità: è ebreo, newyorchese plurilingue. Finito il liceo si convince che il suo obiettivo sarà “essere ricordato per sempre”, anche se non sa bene come. Sale su verso la Silicon Valley dove abita la sua amica del cuore che ha sposato un ricco startupparo, e invece che approfittare delle ottime università locali e magari trafficare con Internet che stava proprio lì nascendo in quegli anni e comprando azioni tipi Apple, comincia a frequentare la scena gay di San Francisco in cerca d’anziani e attenzioni, ancora.

   

E forse bisognerebbe riflettere sull’importanza di Instagram e della Rete e dei social network famigerati in genere, che pure hanno assorbito tante di queste pulsioni, forse. Magari oggi un Cunanan avrebbe postato molti selfies, sarebbe stato un fashion blogger, sarebbe andato al Pitti in questi giorni, avrebbe preso tanti like e lasciato a casa la calibro 40. Invece: in mancanza d’altre soddisfazioni, si fissa proprio con Versace: nel 1990 viene introdotto alla presenza, dopo la prima di un “Capriccio” di Strauss alla San Francisco Opera House di cui lo stilista aveva fatto i costumi. Nella serie vanno in discoteca e poi anche a letto, ma secondo taluni Versace si fermò solo a salutare il piccolo fan. Cunanan invece, totalmente mitomane, si convinse d’avere una strenua relazione con lo stilista, a quel punto reo di non rispondere più ai suoi messaggi (pare che nelle attitudini dei serial killer il ritiro d’affetto da parte degli amici immaginari sia un movente top). Naturalmente il papà filippino aveva istruito il piccolo futuro console anche all’uso di pistola.

  

Però quante riflessioni anche sui diversi caratteri nazionali: Cunanan è la continuazione con altri mezzi dell’eterno mito americano del ladro d’identità; si cambia nome e persona e identità e targhe automobilistiche tante volte in un paese che lo consente e lo incentiva e notoriamente dotato di archivi che non comunicano tra loro; ma anche un popolo con strutture psicologiche ugualmente poco comunicanti e tante scissioni. Un filone autorevolissimo. Dal “Talento di Mr. Ripley” a “Prova a prendermi” con le varianti di “American Psycho”e “Vertigo”, con questi antieroi americani che in qualche modo fanno i wasp di giorno e i serial killer di notte, oppure non potendo realizzare il sogno americano preferiscono continuare a far finta. O a far fuori. Se non sei l’uomo di successo che devi essere, prendi un altro, ammazzalo e prendi il suo posto. E’ il simmetrico dell’american dream. “Ho sempre pensato che è meglio essere un finto qualcuno che un vero nessuno” dice il protagonista di “Mr. Ripley”, romanzo del 1958 (lo stesso anno che uscì “Vertigo”).

  

  

   

Mentre in Italia, stesse dinamiche però in versione balneare. Un eterno conte Max che per uno scherzo del destino si trova nelle scarpe di un nobile o un industriale (“Fratelli d’Italia” di Neri Parenti, anche); e giù equivoci per la durata di un weekend o una settimana bianca, durante i quali si tromba, si rivalutano i ceti proletari di provenienza e si torna felicemente allo status primigenio, perché in fondo ognuno sta meglio dove sta, nel paese senza ascensore sociale (ma almeno non muore nessuno, nessuno si fa male). Come nei cinepanettoni, nella serie su Versace i momenti fondamentali sono accompagnati da grandi successi pop nostalgici: mentre Cunanan fa fuori il proprietario di pick up parte a tutto volume “Gloria” di Umberto Tozzi nella versione inglese; mentre stermina l’anziano, ecco “Easy lover” di Phil Collins; quando a Miami comincia a dare la caccia a Versace parte “Be my lover” dei La Bouche.

   

Il padre di Cunanan tornò col suo bastone da passeggio negli Stati Uniti solo nel ’98 per farsi intervistare da una grande rete tv e lanciare un film-verità sul figlio che si doveva chiamare “Un nome da ricordare” (sul titolo non era disposto a trattare. Sugli ingaggi sì. Secondo lui il film avrebbe dovuto incassare 115 milioni di dollari. Nessuno naturalmente lo produsse mai). La madre fu sempre convinta che ci fosse di mezzo la mafia e che il figlio non c’entrasse niente con l’omicidio Versace. Le ceneri e gli eredi dello stilista furono fatti rientrare a Milano con un Gulfstream, unico aereo non commerciale in grado di coprire la rotta transatlantica senza scalo; ce l’aveva solo Berlusconi, all’epoca, in Italia. Che fu richiesto, e lo imprestò.

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