Un ristorante del Carlyle, nell’Upper East Side di Manhattan: stanze, suite e quaranta appartamenti privati di lusso vecchio stile (Foto via Wikimedia Commons)

Grand Manhattan Hotel

Michele Masneri

Ci veniva Kennedy con Jackie e pure Marilyn. Ci abitano ereditiere e anziani ricchissimi. Abbiamo fatto su e giù con gli ascensori del più aristocratico albergo di New York. Come guida, due italiani

Che fa, sale?” dice l’anziano signore in tenuta da palestra al primo piano, che ci ricorda tanto qualcuno ma non ci si ricorda chi. Sembra Pierre Bergé ma è impossibile perché è morto qualche mese fa. Intanto l’ascensorista in guanti bianchi, guanti come quelli di Topolino, dice “buongiorno signore, che piano?”. “Aspetti”, entra una signora con perle inestimabili e un levriero alto quanto un vitello, l’ascensorista la saluta per nome, lei sbuffa, “che stanno facendo tutti quei fotografi nella hall?” “Preparano il calendario Pirelli, madam”, lei sbuffa ancora, “o mio Dio”. Upper East Side, costosissimo e ammuffito-esclusivo come un club. L’ultimo albergo di lusso d’America ad avere ancora le chiavi, oltre che gli ascensoristi umani. Gli ascensoristi sono quattro, come gli ascensori, vanno su e giù più di 100 volte al giorno, per le stanze e le suite e soprattutto verso i 40 appartamenti privati di dinastie globali che qui da sempre hanno casa. Il vecchietto poi ci viene in mente, è Barry Diller, proprietario di Tinder, di Expedia, di mezza New York e mezzo web, marito di Diane von Fürstenberg, inventore dei Simpson. “Oh, certo, abita all’attico” dice uno dei quattro ascensoristi.

  

L'ultimo albergo di lusso d'America ad avere ancora le chiavi, oltre che gli ascensoristi umani: quattro, come gli ascensori

La stessa mattina al ristorante, tra velluti e argenterie con camerieri vecchiotti che pattinano su moquette aristocraticamente lise, una signora che ogni giorno fa colazione all’alba e invita sempre per il breakfast degli amici simpatici. Ricci rossi, pantaloni neri, golfino rinsecchito, diamanti, orgogliosa delle sue rughe rarissime tra questi codici di avviamento postale newyorkese, a un amico rubizzo che prende un bloody mary alle 7.30 a.m. e fa una battuta osée: “Martin, ti ricordo che sei pur sempre uno dei miei consiglieri d’amministrazione”. Nel tavolo centrale, il philosophe tricologico-guerrafondaio Bernard-Henri Lévy beve champagne con una giovane accompagnatrice – lui ha scritto l’introduzione al coffee table book dedicato all’hotel, edizioni Assouline, in cui cita molto sé stesso e la moglie Arielle Dombasle, che non è quella seduta con lui, e avrà dunque sconti a vita sul breakfast (che viene 45 dollari). Le camere sembrano quelle di un maniero di nonni abbienti che se la sono passata meglio: prese della luce rattoppate, tavolini di legno, vecchie agende pesanti sparse per le cassettiere, vago odore di gasolio, stampe di Piranesi alle pareti; però poi servizio in camera di valletti anziani che ti insegnano New York e la pressione giusta della doccia, ma la cosa più bella sono gli ascensori. Sono bianchi con lesene dorate, sembrano disegnati da Sottsass ma cinquant’anni prima, hanno la pubblicità di parrucchieri, l’odore delle case dei vecchi (ricchi), quindi lime, menta, cipria.

  

Alla fine non si resiste e una sera invece di andare in giro si sta dentro un’oretta l’ascensore con Sal, siciliano di Palermo, che ci porta su e giù in una Downton Abbey ascensoristica da cui non si vorrebbe più andarsene. Andiamo su e giù per tante volte. Imbarchiamo passeggeri. C’è una signora residente che riceve una specie di santone con delle medagliette, forse qualche pope o monarca in esilio perché lei gli parla in greco e gli fa dei plongeon perfetti riuscendo a entrare nell’ascensore a marcia indietro perfettamente e poi accostandosi allo sportello. Il pope o monarca procede spedito e si deve accucciare un po’ perché l’ascensore è piccolo. Poi, altro giro, torniamo giù, “lobby” dice Sal, aspetta qualche secondo, entra una ragazza e lui le parla in francese, è un’insegnante di francese che viene sempre la stessa ora da una famiglia doviziosa. “Lezioni di qualunque genere, a tutte le ore” dice lui che incarna la perfezione alberghiera e ascensoristica. Poi entra un adolescente dall’aria sconvolta in accappatoio che va al sesto piano con un drink. Al quinto in questi giorni c’è Tom Selleck, l’ex Magnum Pi, forse in fase di rilancio. Ai piani sulle consolle vetuste ci sono dei telefoni e dei cartelli. “Se l’ascensore non arriva, per favore telefonate”, e infatti gli ascensori non arrivano mai, premi il pulsante e questi montacarichi arrivano dopo minuti, anche decine, sbuffando, come alzati a braccia. “Eh sì, è un po’ come vivere in campagna, dear, per uscire dal palazzo devi mettere in conto una mezzoretta” dice la signora del levriero. Però come succede in questi casi, l’attesa spasmodica diventa occasione di relax e fantastica osservazione sociologica e analogica come nei rehab dove devi tenere spento il telefono.

 

L'appartamento da 28 milioni di dollari in vendita e quello da 85 mila al mese di sole spese di pulizia. Cucine sempre minuscole

Per diventare ascensoristi del Carlyle ti fanno un corso, “ma che ci devono insegnare, noi abbiamo inventato la civilizzazione” dice Sal, che ci scongiura di non citarlo perché al corso insegnano soprattutto la discrezione, devi trovare quella misura perfetta tra lo small talk e l’invisibilità, per portar su e giù clienti celebri che vogliono restare sconosciuti, e viceversa. Sal si chiama poi Salvatore Gallina, da Carini (Palermo), i fratelli hanno il bar “Foresta”, “vendiamo anche il Foglio”, dice orgoglioso e noi con lui di questa aristocrazia ascensoristica. “In questi giorni c’è Eva Mendes col marito, ogni volta che si spostano sembra che si debbano muovere Falcone e Borsellino”. Tanti altri invece soprattutto discretissimi, ma amano essere riconosciuti e omaggiati, “non devi chiedergli il nome più di una volta, poi lo devi imparare a memoria”. Una delle prime corse del mattino è quella delle cinque, quando portano su i giornali nelle camere, con un carrellino – i giornali vengono appesi alla maniglia della tua stanza in una sacca di leggera tela grigia, senza fondo, ma con solo un laccetto – oggi vengono distribuiti: 90 New York Times, 47 Wall Street Journal, 22 Usa Today, 22 Financial Times – l’ascensore del Carlyle è anche un ottimo osservatorio sulla stampa, da tempi pre-big data.

 

Uno degli ascensoristi ha abbandonato la professione e ora fa il clarinettista, dopo aver accompagnato Woody Allen, patito del Carlyle, che ha ambientato un suo racconto qui, ma soprattutto viene a suonare al bar ogni lunedì. “Il bar è decorato coi murales di Marcel Vartès, che impiegò quasi due anni e non voleva finirli, perché il patto era che rimanesse ospite dell’hotel finché non avesse finito il lavoro”, racconta al Foglio il direttore (anche lui siciliano) Massimiliano Puglisi. La galleria ha degli affreschi cavernosi e un po’ tirolesi di Renzo Mongiardino. Ma torniamo agli ascensori, che “vanno giù nel basement” dice sempre il direttore, con cui facciamo un po’ di su e giù, e verso la celebre entrata segreta da cui entrano monarchi e rockstar da tutto il mondo, “da Lady Diana al principe Carlo, recentemente”, a chiunque un po’ famoso nel mondo, ma gli utilizzatori più celebri furono senz’altro il presidente John Fitzgerald Kennedy, con la moglie Jacqueline, e l’amante Marilyn, che vivevano tutti e tre nell’hotel in tre suite separate, con allegre scorribande notturne. Marilyn si rifugiò qui in hotel la sera del 19 maggio 1962 dopo aver cantato Happy Birthday Mr. President inguainata nel vestito più attillato della storia d’America, al Madison Square Garden. I Kennedy furono gli abitanti che consacrarono l’hotel scegliendolo nei primi anni Sessanta e inaugurando il passaggio segreto, cui si accede dagli ascensori, “anche se oggi c’è una specie di gentlemen agreement coi paparazzi per cui i nostri ospiti possono tranquillamente entrare dal portone principale senza essere disturbati” dice il direttore che ci accompagna su in un giro speciale perché oltre il ventesimo piano ci sono gli appartamenti privati, le famose penthouse. “L’hotel era nato come condominio nel 1930 e solo dopo divenne un albergo” dice Puglisi. La cosa interessante è che non ci sono filtri, non ci sono ascensori di prima e seconda classe né quelli di servizio, e ti ritrovi con magnati e re in esilio e fattorini (potrebbe essere una buona tecnica per dei matrimoni di interesse, stare appostati dentro. Forse Wes Anderson si è ispirato qui per il suo film alberghiero).

 

In questi giorni c'è Eva Mendes col marito, ogni volta che si spostano sembra che si debbano muovere Falcone e Borsellino

Oltre a Diller, nelle penthouse hanno abitato Calvin Klein, Mick Jagger, ma poi quando vendono gli appartamenti tanti hanno contratto il morbo e ritornano come clienti dell’hotel, come Jagger “che è stato recentemente da noi”. C’è poi una specie di prelazione per cui quando qualche appartamento si libera, l’hotel ha la prima opzione per acquistarlo; un understatement per dire che quando muore qualcuno, spesso i proprietari sono anzianissimi capitalisti, come “mister Brad Gray, amministratore delegato della Paramount e inventore dei Sopranos, che se n’è andato a maggio, il suo era uno degli appartamenti più belli”. Ma andiamo su col direttore fino al ventiseiesimo piano, nel frattempo abbiamo imbarcato un altro personaggio meraviglioso, il signor Hector Ruiz, un signore azzimatissimo che ha quell’aria araldica-efficiente che solo i direttori dei grandi alberghi hanno, e ne fa una speciale categoria simile ai diplomatici, con uso di mondo, lingue, stirature di camicie, postura drittissima. Il signor Ruiz è una specie di agenda vivente, “molti dei nostri clienti non prenotano su Internet, lui era qui dai tempi in cui non c’era neanche il centralino, ha i numeri di tutti e tutti hanno il suo”. Col centralino umano saliamo in uno degli appartamenti che si è appena liberato (in questo caso, non per decesso). “La signora si è appena trasferita in California, dice Ruiz, “dobbiamo completare il trasporto delle opere d’arte”; questa misteriosa signora, proprietaria dell’appartamento che vale 28 milioni di dollari con vista bestiale su Central Park, e armadiature su misura per chilometri, e solo una piccola cucina; alcuni vendono anche perché le spese non sono proprio modeste. L’appartamento più grande costa 85 mila dollari al mese solo di pulizie – “il personale pulisce due volte al giorno e gli appartamenti sono sempre pronti per l’arrivo dei proprietari, anche se questi magari vengono una volta l’anno e abitano dall’altra parte del mondo”, dice il direttore, e all’anno fa quasi un milione, che è una spesa che fa riflettere anche qualcuno che avesse la fortuna d’ereditare uno stabile qui. Così gli eredi vendono, e l’hotel si espande. Diventando anche uno speciale museo, perché questi appartamenti spesso sono stati abitati da personalità novecentesche e dunque raccontano l’America come un Mad Men alberghiero. “La vecchia proprietà aveva una logica precisa, non volevano perdere soldi ma non erano neanche assatanati di guadagnarci, erano consapevoli di avere un gioiello che va mantenuto” dice il direttore, e la nuova proprietà Rosewood pare aver ceduto al fascino. “Le stesse famiglie vengono da cinquant’anni, per il Ringraziamento e a Natale sappiamo già chi verrà mesi prima.

 

Anche se loro non avvertono, “Don’t worry, they will show up”, dicono i maître. “Noi lo sappiamo anche se loro non lo sanno ancora. Così quando si presentano senza aver prenotato rimangono un po’ stupiti”. Il sistema di compensazione tra hotel e condominio permette di avere pochissimi turisti (in tre giorni, si è vista solo una coppia cinese, tipo panda in quota protetta, stravolti da questo lusso fané, perché ci si sente un po’ come in un club privato, e “molti clienti in luglio e agosto evitano di andare al bar perché dicono che ci sono troppi turisti, anche se troppi vuol dire appunto un paio”, dice il direttore, che coltiva lo snobismo museale, per esempio appunto con questa speciale chiave magnetica che “siamo rimasti gli unici ad avere a New York per le camere, se si perdono devono venire su dal New Jersey a ripararle”.

 

Il passaggio segreto, le penthouse dove hanno abitato Calvin Klein e Mick Jagger. E Woody Allen che suona qui ogni lunedì sera

Saliamo al trentesimo piano, “vede il pianerottolo, è tutto rivestito di foglia d’oro” fa notare sommessamente il signor Ruiz. E’ l’appartamento in cui viveva Nancy Reagan “lei era ammessa e benvoluta, ma il marito, quando divenne presidente, non fu più gradito. Portava troppo scompiglio agli altri proprietari”, dice il signor Ruiz. Alle pareti, un Lichtenstein originale grande quanto un cartellone pubblicitario, poi una scala a chiocciola verso terrazze giganti, e la solita cucina minuscola di queste penthouse che colpisce sempre, come le case di Palm Springs: a fronte di metrature sibaritiche la cucina è sempre un angolo cottura da studenti, qui una cucinetta tutta anni Sessanta rimasta originale, con bollitore Braun da modernariato, disegnato da Dieter Rams, e fornelli e pensili chiaramente mai usati, perché i cibi venivano portati su dalle cucine d’hotel, o, semplicemente, si usciva a cena tutte le sere, per cinquant’anni. Marmi e pulsantiere molto complicate con bottoni di bachelite, telecomandi per schermi che scendono, “lei era una grande appassionata di tecnologia”, tecnologia naturalmente d’epoca “mentre il marito non ne capiva niente”. La tecnologia rimane da parte anche negli ascensori, dove tutto è pilotato manualmente. Non temete la robotizzazione? Moderni ascensori inox? Magari con la carta elettronica e gli spaventosi led blu? A gennaio cominceranno i restauri dell’hotel, i clienti sono spaventati di possibili cambiamenti. Ma nei lift no: c’è una speciale clausola nel contratto di lavoro del Carlyle, dice Sal; qualunque cosa succeda, nessuno toccherà gli ascensoristi.