Steve Bannon dal suo feudo di Breitbart parla del reclutamento di un “esercito di attivisti” e promette all’establishment di trovare “un Bruto per il vostro Giulio Cesare” (foto LaPresse)

La guerra di Bannon

Da una parte lui e i sovranisti intransigenti, dall’altra l’establishment repubblicano da “riallineare”. E in mezzo, Trump che fa la spola

Steve Bannon è di nuovo in guerra. Il vocabolario bellico è quello che si addice meglio alle operazioni dell’ex stratega di Donald Trump, che dal suo feudo di Breitbart annuncia una “stagione di guerra”, parla del reclutamento di un “esercito di attivisti” e promette all’establishment di trovare “un Bruto per il vostro Giulio Cesare”. Per combattere una guerra serve però un nemico, e nel caso di Bannon non è semplice individuarlo senza ritrovarsi in una notte in cui tutte le vacche politiche sono nere. Bannon sta facendo la guerra a Trump o ai nemici del presidente? Il suo obiettivo è distruggere l’establishment o affondare il suo vecchio capo, che ha sedotto e abbandonato la destra nazionalista e viscerale? Mandanti e finanziatori di Bannon vogliono affossare l’Amministrazione oppure costringerla con un po’ di nudge a tenere una certa rotta? Queste domande discendono da altre questioni irrisolte: Bannon è stato licenziato da Trump oppure si è dimesso? E se si è dimesso, lo ha fatto in accordo con il presidente, per aiutarlo più efficacemente dall’esterno, oppure è stato un divorzio ostile a denti stretti con promesse di una vendetta servita fredda alle elezioni di midterm del prossimo anno? Chi è il capocomico e chi la spalla? Chi il campione e chi il gregario che tira la volata? Di certo Bannon ambisce a essere riconosciuto come intrigante kingmaker dei giochi politici, burattinaio che muove i fili invisibili di un presidente troppo impegnato a inseguire i suoi istinti per delineare una strategia intellegibile. Non è importante che lo sia davvero, il fatto cruciale è che così sia percepito dagli alleati, dai nemici e soprattutto dalla base repubblicana, un agglomerato multiforme che in qualche modo ancora professa la sua fedeltà ai precetti nazionalisti che fanno da base al progetto trumpiano. Quella è la vera roccia attorno a cui gira questa indecifrabile stagione politica.

 

Chi è il capocomico e chi la spalla? Di certo Bannon ambisce a essere riconosciuto come intrigante kingmaker dei giochi politici

Bannon si afferma e cresce nel terreno delle ambiguità e delle contraddizioni, vive di piroette, cambia continuamente squadra e affiliazione protestando però una presunta lealtà a ideali più profondi di quelli che si manifestano nelle triviali liti fra correnti. Affetta un certo distacco dalle risse di giornata nel nome della fedeltà al “nazionalismo economico”, al “populismo”, all’“agenda America First”. Può lasciare interdetti trovarlo a Pechino a colloquio con Wang Qishan, il capo della sezione anticorruzione del partito noto come il secondo uomo più potente della Cina dopo Xi Jinping, giusto un mese dopo aver proclamato che l’America è impegnata in una “guerra economica contro la Cina”, oppure tessere le lodi dell’Arabia Saudita dal pulpito di un think tank conservatore di Washington, dove contestualmente ha castigato il Qatar per i legami con il terrorismo islamico, circostanza che ha ispirato l’ironico attacco di un’analisi del magazine New York sui forgotten men di Riad: “Steve Bannon sta dando una strigliata ai cosmopoliti senza radici dell’Amministrazione Trump: gli uomini e le donne dimenticati dalla famiglia reale saudita non possono più essere dimenticati”. Nell’orizzonte di Bannon, che sotto le esoteriche spoglie del filosofo che s’abbevera alla sapienza di Julius Evola nasconde l’animo spiccio del faccendiere, queste operazioni rispondono alla logica dell’accreditamento. Dare lezioni di populismo alla Cina è un suggello dell’America First, consolidare l’alleanza con i sauditi risponde ai dettami della realpolitik nazionalista, e pazienza se nell’alleato ora isolato Qatar giace, inutilizzata, la più grande base militare americana del medio oriente. Lo stratega vive di queste relazioni, letteralmente. Non è casuale il fatto che il governo degli Emirati Arabi abbia un generoso contratto con la compagnia che controlla Cambridge Analytica, responsabile delle analisi elettorali di Trump e controllata dalla famigerata famiglia Mercer, che ha partecipazioni di maggioranza in tutte le aziende e i comitati politici in cui è coinvolto Bannon. Il quale possiede tra l’altro una quota di Cambridge Analytica il cui valore è stimato fra uno e cinque milioni di dollari. Follow the money è un luogo comune, e in quanto tale narra una verità.

  

Quando Bannon ha lasciato la Casa Bianca ha promesso totale sostegno a Trump, poi ha fatto un gigantesco frontale con il presidente in Alabama, dove sosteneva un candidato non convenzionale, Roy Moore, mentre Trump optava per il favorito Luther Strange. I leader del Gop al Congresso hanno investito oltre dieci milioni di dollari per eleggere Strange, che ha perso amaramente contro la organizzata, ma assai meno danarosa, macchina bannoniana. Galvanizzato dalla vittoria che ha ribaltato gli equilibri, Bannon ha promesso una mobilitazione totale per sconfiggere alle primarie tutti i senatori repubblicani in cerca di rielezione tranne Ted Cruz. Lo ha detto ai microfoni di Fox, non dalle pagine digitali di Breitbart, e in questo caso il mezzo è davvero il messaggio. Il network di Murdoch è la zona mista dove gli ultrà di Trump e i fedeli del Partito repubblicano s’incontrano, è in quegli studi televisivi che si stabilisce in quale punto dello spettro conservatore si colloca il centro magnetico della destra che verrà. Quando Bannon parla in quella sede non si rivolge soltanto agli intransigenti già convinti. Forte della vittoria di Moore, ha deciso di rilanciare la sua opa ostile sul partito, facendo bella mostra di essere guidato soltanto dai principi, non dalle affiliazioni. Se fra un anno la pattuglia degli insurgent populisti modificherà l’equilibrio fra le correnti repubblicane, l’elezione suppletiva in Alabama passerà alla storia come il momento in cui il più puro Bannon ha epurato il puro Trump, e gli elettori hanno votato di conseguenza.

 

Tutte le energie dell'ex stratega a sostegno di candidati che spostano l'asse del partito lontano dai centri di gravità dell'internazionalismo

L’idolo polemico del fu Rasputin di Trump è Mitch McConnell, leader del Senato repubblicano e uomo che incarna, fin dai tratti somatici, lo spirito dell’establishment. Per mesi il presidente ha interrotto le comunicazioni con McConnell, lo ha accusato pubblicamente di essere una disgrazia per il paese, lo ha definito pavido e inconcludente, lo ha rimproverato per non aver trovato il modo per rimpiazzare l’Obamacare con una nuova legge. Dopo la dichiarazione di guerra di Bannon ha cambiato completamente atteggiamento. Sono ripartite le comunicazioni con la Casa Bianca, un’imbarazzante apparizione congiunta è stata convocata nel Rose Garden, Trump parlava del senatore come di un compagno di mille battaglie e nel surreale discorsetto sull’improbabile futuro dei conservatori ha tirato fuori esplicitamente anche Bannon, come a sottolineare una frattura fra i due. Si è perfino impegnato a convincere l’ex consigliere a riconsiderare “alcuni” dei senatori in carica che ha promesso di disarcionare: “Vedrò se riusciremo a convincerlo a desistere dall’attaccare alcune persone che ha nel mirino, perché, francamente, sono ottime”. Non è chiaro di quali senatori parlasse il presidente, ma nel giro di una settimana ha telefonato a John Barrasso del Wyoming, Deb Fischer del Nebraska e Roger Wicker del Mississippi per assicurare il suo appoggio incondizionato. Sono tre nomi che Bannon vuole ardentemente vedere cacciati dal Senato.

 

L’ambivalenza di Trump verso il nemico-amico, che a sua volta lo ha incensato con irrituale fervore (“merita molto più credito di quanto la gente sia disposta a concedergli”) ha innescato uno scambio fumante con Bannon, lo “specialista nel selezionare candidati che perdono” alle elezioni generali. Nel frattempo, però, il grande manovratore ha incassato altre due vittorie. I senatori Bob Corker e Jeff Flake, duramente critici verso il presidente, hanno deciso di ritirarsi dal Senato con altisonanti polemiche nei confronti della Casa Bianca e appassionate difese della lealtà ai principi repubblicani. Spaventare gli avversari fino a costringerli ad abbandonare il campo è esattamente lo scopo per cui si muove Bannon, che va in sollucchero quando sente che un Flake ammette a priori di non poter condurre una campagna che gli permetta realisticamente di vincere senza compromettersi con le parole d’ordine di Trump. Opporsi al muro con il Messico, ai decreti sui “dreamers”, contestare la linea della Casa Bianca sul libero scambio e sulla politica estera significa mettersi in minoranza in questo partito fatto sempre più a immagine e somiglianza del presidente. “I repubblicani dell’establishment che si oppongono all’agenda America First del presidente hanno i giorni contati”, ha annunciato Bannon. Un nuovo salto di qualità in questa lotta colpo su colpo. McConnell ha dato ufficialmente il via libera ai suoi uomini di combattere usando qualsiasi stratagemma, colpi bassi inclusi. Non si tratta di una campagna politica, ma di orchestrati attacchi personali concepiti per svilire e screditare. L’establishment vuole ripagare Bannon con la sua stessa moneta. Il Senate Leadership Fund (Slf), il comitato politico che smista i fondi elettorali per conto del leader del Senato, ha dato l’ordine di ricordare pubblicamente a tutti i candidati che Bannon è un antisemita e un suprematista bianco. Il Slf fa circolare da settimane su Twitter un vecchio titolo del New York Daily News: “Il ceo antisemita della campagna di Trump Stephen Bannon non è un fan dei mocciosi ebrei, dice la ex moglie”, e segue uno spazio per la firma del candidato di turno, che accetta così di allinearsi al personaggio. Il riferimento è a una deposizione della ex moglie di Bannon, Mary Louise Piccard, secondo cui il marito voleva che le figlie smettessero di frequentare la scuola perché c’erano troppi studenti ebrei. Lo scambio fra le due correnti è destinato a intossicare l’intera annata, ma in questa guerra l’importante è individuare il nuovo schema che si è venuto a creare: da una parte Bannon e gli intransigenti, finanziati dalla famiglia Mercer, dall’altra McConnell e l’establishment. In mezzo Trump fa la spola. Ora s’infervora contro la palude che aveva promesso di bonificare, ora si fa vedere abbracciato ai massimi promotori della palude; chi assiste sconcertato a questo continuo voltafaccia è sempre tentato di pensare che sotto questo ondivago manovrare ci siano chissà quali calcoli strategici, ma molto spesso non ci sono. Questo Bannon lo ha capito. La stretta convivenza alla Casa Bianca gli ha insegnato che Trump è un leader mobile che si lascia tirare e spingere dalle correnti, un presidente liquido che resiste alla solidificazione, e dunque è più proficuo agire direttamente sulla struttura, sul codice genetico del Partito repubblicano, lasciando che il presidente vada un po’ dove vuole. Del resto era la regola aurea che campeggiava nell’ufficio del manager della campagna di Trump agli albori del fenomeno: “Let Trump be Trump”, lasciate che Trump faccia Trump. Bannon sta dando un nuovo significato a questa affermazione.

 

Sotto le esoteriche spoglie del filosofo che s'abbevera alla sapienza di Julius Evola nasconde l'animo spiccio del faccendiere

Peter Baker sul New York Times ha tracciato un parallelo storico ardito ma efficace con il tentativo – fallito malamente – di Franklin Delano Roosevelt di ricostruire a sua immagine il Partito democratico nel 1938 attraverso un oculato sistema di purghe politiche interne. Nello spiegare analogie e differenze con quello che oggi Bannon sta tentando di fare nel Partito repubblicano, Baker riesuma un termine caro ai politologi americani, riallineamento. Il riallineamento è un cambio di assetto nei rapporti fra i due maggiori partiti, ma può essere anche riferito alla ricomposizione delle forze interne a uno stesso schieramento, ed è proprio il caso di Roosevelt che ha tentato di creare d’imperio una coalizione attorno ai valori liberali del New Deal estromettendo i democratici del sud che remavano contro i diritti civii. L’operazione di riallineamento democratico è fallita quando il presidente ha tentato di metterla in pratica per via politica, ma si è realizzata nei decenni successivi come approdo “naturale” di un lavoro iniziato a suo tempo. La vicenda politica americana si muove per fratture e riallineamenti, scomposizioni e ricomposizioni che avvengono nel tempo. I semi del trionfante conservatorismo di Reagan erano stati piantati dall’ispirata e tuttavia disastrosa corsa di Barry Goldwater nel 1964. E’ questo il perimetro in cui si muove Bannon, che lavora con dedizione e mani libere dagli incarichi di governo per propiziare un riallineamento nazionalista e populista del partito che vive – e non dalla comparsa di Trump – una poderosa crisi d’identità. Tutte le energie dell’ex stratega sono impiegate per selezionare e sostenere candidati che spostano l’asse del partito lontano dai centri di gravità dell’internazionalismo e dalle missioni civilizzatrici di respiro globale, per riportarli in una dimensione sovranista. Dalla massa critica ideologica che sarà in grado di sviluppare da qui a un anno si vedrà se l’ala nazionalista sarà in grado di dettare legge in maniera indisturbata nella dialettica interna, così da propiziare un riallineamento. Nella guerra di Bannon Trump è, tutto sommato, un danno collaterale.

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