Lo scrittore Aldo Palazzeschi

Una lettera ai giovani d'Italia ripubblicata da Mondadori

“Italia, attenta a economia e Germania”. Palazzeschi capì tutto già nel '45

Antonio Gurrado
In “Tre imperi… mancati” lo spirito di fazione italiano e la Grecia non più riconosciuta come madre della civiltà

Ci sono cose che non si possono dire negli incontri bilaterali e i libri sono fatti per custodirle, lasciandole sottotraccia a far da contrappeso ai complimenti reciproci fra capi di governo. Prendiamo la Germania, per esempio. Quale fiorentino, affezionato quantunque alla propria città, dichiarerebbe pubblicamente che nella Seconda guerra mondiale Firenze è stata colpita dai tedeschi “senza un perché, senza una ragione plausibile, per suprema affermazione di barbarie, e per l’odio che ha questa razza maledetta per tutto ciò che è bello e civile”? Un politico non può farlo, uno scrittore sì. Tuttavia, affinché uno scrittore parli bisogna continuare a pubblicarlo, mentre il libro in cui Aldo Palazzeschi ha scritto queste parole è uscito nell’autunno 1945 per Vallecchi e da allora ha taciuto, sparito fino all’edizione Mondadori appena arrivata in libreria. Tempo sprecato: “Tre imperi… mancati” contiene una lettera ai giovani d’Italia che ci sarebbe stata di molto aiuto nei settant’anni trascorsi, durante i quali i giovani d’Italia sono diventati vecchi, e chi doveva costruire una nuova patria è diventato il depositario della polvere di una nazione antica.

 

Palazzeschi si rivolge alla generazione di Napolitano, per intenderci, mettendola in guardia dalla brama tedesca di predominio sul continente (“Non pensate di poter dare alla Germania una posizione di autonomia. Essa è come il drago della favola, non sarà vinto fino a che uno non riesca a tagliargli le sette teste tutte in una volta”); esagera, ma indovina sin d’allora che i tedeschi non riconoscono nella Grecia “la madre della civiltà europea fino a ieri vivente” perché essa è creatrice di una bellezza che sfugge alla misurabilità economica, pertanto “vogliono soltanto distruggerla”. Esagera (“Noi apparteniamo alla civiltà che è morta: sarebbe stato bello morire con lei”), ma coglie nel segno quando esorta gli italiani a non cedere al primato politico dell’economia se vogliono far sopravvivere l’Europa delle ricchezze spirituali: “Faremo vedere che non è necessario essere ricchi per essere felici, è il nostro segreto che abbiamo dimenticato per carpire l’altrui”.

 

“I popoli vecchi son assurdi”, scrive Palazzeschi ai giovani d’Italia senza sapere che l’avrebbero letto a novant’anni. Li mette in guardia dal popolo italiano, “pericolosamente astratto, cafone in modo pesante e, in modo perfetto, privo di senso sociale”; un popolo che confonde la retorica con la poesia senza accorgersi che è “poesia usata, poesia smessa, stracca, logora, frusta”; individualista al punto da non sorprendersi che alla caduta del fascismo si siano immediatamente formati più di venti partiti personali, nessuno dei quali rappresenta l’interesse nazionale quanto l’astensionismo. Nei partiti della nuova Italia “vi è uno spirito di fazione troppo molesto per una leale convivenza e collaborazione, ed è ancora vivo in troppi lo spirito di restaurazione medioevale, l’abitudine alla violenza più che il desiderio di accrescere le proprie forze in una lotta generosa”. Ciò rende il loro antifascismo manierista e intollerante, mentre “lo Stato non esiste” perché abbisognerebbe di riforme strutturali e invece manca “un partito di centro che dia affidamento di saperle attuare”, senza legarsi “a nostalgie del passato divenute soltanto poetiche”. Ma poetiche di poesia usata, marcita, stantia, che abbiamo conservato per settant’anni nella credenza convinti che fosse lo spirito eterno della nazione quando invece era solo esercizio retorico.