La differenza tra gli Anni 70 di Vinyl e i sessanta suonati di Zero e Curreri

Giulia Pompili
Jagger ha fatto una serie tv per raccontare a una generazione di millennial da talent show che cosa è stata l’industria musicale degli anni Settanta. La nostalgia è stata il pretesto per fare qualcosa di bello. Da noi, invece, la nostalgia suggerisce la ripetizione sempre uguale. Parte su Hbo il serial sul rock newyorchese. (E noi, provinciali).

Roma. Nel 1973 Richie Finestra sta trattando per vendere la sua American Century e mettere sotto contratto i Led Zeppelin. E’ il prototipo del discografico newyorchese dei primi anni Settanta, Finestra: sregolato, cocainomane, con un’etichetta sull’orlo del precipizio. Ma il personaggio, interpretato da Bobby Cannavale, è soprattutto un profilo inventato da Mick Jagger. Al frontman degli Stones vent’anni fa venne il desiderio di raccontare la storia dell’industria musicale dei Seventies, definita sinteticamente da tre elementi: soldi, droga e fluidi corporei. La musica dei Sessanta stava lasciando lo spazio all’underground e alle sottoculture, con soltanto un attimo di ritardo rispetto alla scena londinese. La differenza, a New York, la facevano i soldi. Molti soldi e fluidi corporei dopo, quando i tempi furono maturi, Jagger mise intorno a un tavolo Martin Scorsese, Rich Cohen e Terence Winter dei “Soprano”. Come si fa a tradurre in linguaggio contemporaneo una storia vecchia di quarant’anni?, deve avergli chiesto. Facile: si fa una serie tv. “Vinyl”, in America sulla HBO e in Italia da ieri su Sky Atlantic, è una di quelle serie-evento piene di cameo memorabili, di aneddotica dietro le quinte, battute e dialoghi che già nascono nella forma di un tuitt (Richie Finestra su se stesso, nella prima puntata: “Avevo un orecchio d’oro, una lingua d’argento e un paio di palle d’ottone”).

 

 

C’è stato un momento in cui quella parabola del rock – “inteso come colossale effetto psicologico collettivo” (copyright Stefano Pistolini) – ha sfiorato, se non permeato, perfino i nostri palchi e la cultura musicale italiana. Nel 1973, l’anno zero di “Vinyl”, David Bowie suonava all’Hammersmith Odeon di Londra il concerto che poi sarebbe diventato l’album “Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”. Nel 1973 Renato Zero aveva ventitrè anni e pubblicava il suo primo lp, “No! Mamma no!”, grazie a un contratto con la storica Rca Italiana. Qualche anno prima aveva inciso un paio di canzoni scritte per lui da Gianni Boncompagni. Nel frattempo, tutta la rete di amicizie e conoscenze ruotava intorno al Piper, il locale di Roma che per fu per l’Italia ciò che fu per NY il Cbgb di Bowery Street (quasi). Al Piper, Zero ci andava con i trucchi e i costumi in una borsa, una copia romanesca del Bowie dell’Odeon, ma immerso nel provincialismo dell’Italia anni Settanta. Nel 1978, l’anno dell’approvazione della legge 194, Renato Zero cantava “Il triangolo” – con il celebre riferimento alla libertà sessuale, diciamo così, poligama – eppure cinque anni prima aveva registrato “Sogni nel buio”, primo testo antiabortista della canzonetta italiana. Incomprensibile, per il sentimentalismo dell’Italia che cantava Modugno. Sabato scorso Renato Zero era a Sanremo, e tutti si aspettavano che dicesse qualcosa sul sotto-testo dell’edizione, le unioni civili. E lui ha parlato di famiglia, a modo suo, cioè con quella che Ugo Tognazzi definirebbe una supercazzola, e i fini linguisti invece un nonsense. Ha detto di sentirsi alieno in questo mondo, come quando aveva ventitrè anni. E forse questa è la differenza tra Sanremo e “Vinyl”.

 

[**Video_box_2**]Jagger ha fatto una serie tv per raccontare a una generazione di millennial da talent show che cosa è stata l’industria musicale degli anni Settanta, e come siamo arrivati fin qui. La nostalgia è stata il pretesto per fare qualcosa di bello, godibile, forse anche educativo. Da noi, invece, la nostalgia suggerisce la ripetizione sempre uguale (“il carrozzone”, cit. Zero) che chiamiamo tradizione, col medesimo linguaggio di quarant’anni fa. E ancora ci stupiamo se un sessantatrenne come Gaetano Curreri interecetta meglio lo spirito carrozzonistico della nostra provinciale industria musicale, e della sua critica d’àntan, che nemmeno i giovani sfornati dallo showbitz americano dei talent.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.