La copertina di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ottavo album della discografia ufficiale dei Beatles, messo in commercio il primo giugno 1967

Chi era George Martin, il "quinto Beatle" scomparso oggi

Bruno Giurato
E' morto sir George Henry Martin, noto come il "quinto beatle", un titolo guadagnato per il suo ruolo di produttore della maggior parte delle registrazioni dei Beatles, ma anche per aver suonato pezzi strumentali in alcuni dei loro brani. Aveva 90 anni. Ripubblichiamo un ritratto del produttore dell'aprile 2009, di Bruno Giurato

E' morto sir George Henry Martin, noto come il "quinto beatle", un titolo guadagnato per il suo ruolo di produttore della maggior parte delle registrazioni dei Beatles, ma anche per aver suonato pezzi strumentali in alcuni dei loro brani. Aveva 90 anni. La notizia è stata data su Twitter da Ringo Starr: "Dio benedica George, che riposi in pace, con amore a Judy e alla sua famiglia, Ringo and Barbara". Ripubblichiamo un ritratto del produttore dell'aprile 2009, di Bruno Giurato

 


 

L’antico spirito della malizia beatlesiana è ancora in giro, anche al bar Necci al Pigneto. Questo una volta era il tipico paradiso involontario di borgata: il bancone d’alluminio rigato, le seggiole di plastica. Oltre ai soliti giocatori di scopa ci veniva Pasolini a rimorchiare i masculuni suoi, e qui ha anche girato qualche scena di “Accattone”. Adesso è un wine bar ristorante con giardino, piatti fantasiosi, allegra cameriera transilvana, e una banana di plastica appesa alla catenella dello sciacquone (spesso rubata e subito sostituita, avranno una scorta di banane nello sgabuzzino). La clientela è un campionario di in-cool attuale: sono tutti vestiti con certe casacche grunge, poi tirano fuori dallo zainetto un Mac d’alluminio e attaccano a parlare di sceneggiature, o di videoarte. Da un auricolare dell’Ipod rimasto sul tavolo, accanto al tabacco e alle cartine di un tizio, ronza “A day in the life”. Ancora noialtri sognamo una Roma africana, ma ancora la Roma della “volubile Europa” suona nella tonalità dei Beatles.
Che poi cos’era quella scintilla e malizia beatlesiana? Era una specie di realismo irreale. Era vedere un personaggio o un fatto nel contesto quotidiano, poi riguardarlo e trovarci una luce inverosimile, o vagamente fatale. Lester Bangs, il gonzo journalist del rock, scriveva che il ritornello di “I want to hold your hand” era così acuto, modulato, che gli sembrava il canto di un muezzin. Bangs aveva gonzato meglio di tutti, aveva colto l’elemento inverosimile che fa esplodere una ordinaria canzone da adolescenti.

 

Certe canzoni dei Beatles (quasi tutte quelle di McCartney) fanno venire in mente Charles Dickens. Prendi “Eleanor Rigby”. Quella desolazione inglese di fatti quotidiani in una luce storta, da cui filtra qualcosa di sotterraneo. Viene in mente Dickens e la poetica del Moor Effoc, che è più o meno questo: Dickens nella misera gioventù lavorava come cameriere in un caffè, gli venivano i brividi ogni volta che guardava dall’interno l’insegna dipinta sulla vetrina: la scritta Coffee Room si leggeva Mooreeffoc. La lingua ordinaria si squagliava in una specie di formula magica, una porta di accesso al mondo infero (l’aneddoto fu copiato e adattato anche dal prof democratico Roberto Benigni, una volta raccontò che da piccolo vedeva il cinema all’aperto da dietro lo schermo, cosicché i titoli dei film si leggevano al contrario: Ben Hur diventava Rhu Neb). Insomma, da questo Mooreeffoc nasce la realtà trasfigurata di certe pagine dickensiane. Una realtà che fa ridere in solitaria o gelare dal disagio. Lo stesso sentimento che si ritrova in parecchie canzoni dei Beatles. In fondo, Mooreeffoc o Coffe Room, i Beatles erano quelli dei nastri al contrario.

 

“A day in the life” ronza sempre al tavolo a fianco, è anche quello un esempio di questo strano realismo. Il lord che si fa saltare il cervello in una macchina, il narratore che allude a un libro imprecisato, il verso famoso e fumoso: “I’d love to turn you on”, “Mi piacerebbe accenderti” è stato letto come un riferimento alla droga. Potrebbe esserlo o no. La vecchia malizia beatlesiana, comunque, è ancora in giro.

 

Si parla di Beatles anche perché è uscita la prima traduzione italiana di un classico. La storia di “Sgt. Pepper” raccontata da George Martin, il mitologico “quinto beatle”, il “duca di Edimburgo” come lo chiamava John Lennon. In pratica il produttore dei Beatles, quello che con le sue invenzioni sonore e architettoniche ha definito il codice della musica pop, e di conseguenza il paesaggio sonoro in cui tutti tiriamo giornata, insieme a buona parte dell’estetica postmoderna. Il libro si intitola “Summer of Love. The making of Sgt. Pepper” (Coniglio editore, euro 14,50) e la pubblicazione si deve a Paolo Somigli, direttore del mensile Chitarre, che ha comprato i diritti e ha tradotto il libro di suo pugno.

 

George Martin, a guardarlo nelle foto d’epoca in studio con i Beatles sembrava già quello che sembra ora, una quarantina d’anni e molti milioni di sterline dopo. Profilo aristocratico, camicia bianca e cravatta. Un manager di successo, che tra l’altro è, dato che dagli anni Settanta in poi ha prodotto alcuni dischi epocali (dagli America a Celine Dion), e soprattutto ha fondato gli Air Studios, gli studi di registrazione più famosi al mondo. Si dice che i Beatles evitassero di fumare le canne davanti a lui. Di tutto il popolo sessantasettino Martin valuta: “Contemplavano l’eventualità di fare una rivoluzione, e i propri ombelichi”.

 

George Martin incontrò i Beatles nel 1962. Il loro impresario, Brian Epstein, aveva ricevuto una serie di rifiuti, come ultima spiaggia gli indicarono Martin, produttore di commedie musicali in forza alla Parlophone. Martin ricorda così l’audizione del primo demo: “La qualità della registrazione era orribile. Non solo, ma quei Beatles, come si facevano chiamare, proponevano tutto un susseguirsi di ballate che ormai sembravano datate già a quell’epoca, cose tipo ‘Over the rainbow’ o ‘Besame mucho’”. Ma in quella registrazione c’erano anche un paio di composizioni originali, “Please please me” e “Love me do”. Martin decise di convocare il gruppo. Vedendoli di persona percepì il carisma dei quattro. “Nessuno poteva resistere al loro calore, alla loro prontezza e alle loro battute brucianti”. La prima battuta se la prese lo stesso Martin, che disse: “Qualcosa che non va?”. Rispose George Harrison: “La tua cravatta”.

 

All’inizio la funzione di Martin è quella classica del produttore, il cuoco che mette insieme le parti di una canzone: “Quando arrivavano da me con una canzone mi mettevo a riflettere su come arrangiarla in modo che partisse nel modo migliore, avesse qualcosa di interessante nel mezzo, e finisse bene”. Piano piano il ruolo di Martin cresce. In parallelo con il successo e l’avanzare della beatlemania, il gruppo comincia a progettare un approccio diverso alle canzoni, a sognare un art-rock. L’avanguardia che volevano realizzare i Beatles era diversa dall’avanguardia musicale del Novecento, tutta giocata su forme d’arte astratte, concettuali alla Cage e Stockhausen. Doveva dissolvere la realtà, farne vedere il lato infondato, eventualmente infero, ma senza precipitare in una dissoluzione dell’immagine realistica. Doveva essere reale e folle, come il Mooreeffoc di Dickens. A George Martin viene richiesto, specialmente da parte di McCartney (il musicista più completo dei Beatles) e di Lennon di lavorare sempre più sui suoni.

 

Nel 1966 i Beatles decidono di abbandonare per sempre i concerti, e di chiudersi per mesi negli studi di Abbey Road per costruire “Sergent Pepper Lonely Hearts Club Band”. Un disco che, pennellata dopo pennellata, verrà montato attraverso un lavoro infinito sui suoni. Un lavoro enorme fatto da Martin nonostante le limitazioni tecniche: “Sgt. Pepper” verrà registrato su quattro piste, per le produzioni attuali si supera la sessantina. Ore e ore di sperimentazione dei tecnici. George Harrison: “Il ricordo più chiaro che ho di ‘Sgt. Pepper’ è che in quel periodo ho imparato a giocare a scacchi”.

 

Il libro di George Martin è tra l’altro uno spettacolare racconto di quello che accadeva nell’officina Beatles. Lo studio di Abbey Road era un luogo inospitale: “Stavamo in quella grande stanza bianca, così sporca che necessitava di una ritinteggiatura da anni, con un’enorme lampada che pendeva dal soffitto, nessuna finestra, niente luce del sole. C’era un’atmosfera molto asettica e assai poco invitante”. Il frigorifero aveva un lucchetto, e ad ogni inizio di registrazione si doveva andare a ritirare la chiave. Uno degli esempi della fantasticheria sonora di Martin & Beatles (e del lavoro di taglia e cuci sui nastri) è in “Being for the benefit of Mr. Kite”. Dato che Lennon, l’autore della canzone, amava molto il programma per bambini “The magic Rondabout”, che aveva nella colonna sonora un organo a vapore impossibile da trovare, Martin scovò alcune registrazioni di marce militari eseguite con quello strumento, tagliò il nastro a pezzettini e rincollò i pezzi a caso. “Formavano un ammasso caotico di suoni: era impossibile riconoscere i brani da cui erano stati estrapolati, ma si trattava indubitabilmente di un organo a vapore. Perfetto”. Un altro esempio è in “Strawberry fields forever”. Lennon, sempre vago e ottimista quando si trattava di dettagli tecnici, decise che gli piacevano due versioni diverse del brano, e suggerì di unire l’inizio di una con la continuazione dell’altra. Ma le due canzoni erano in tonalità e tempi diversi. Martin risolse rallentando la seconda versione. Basta farci attenzione e la giuntura si sente: la seconda volta che si ascolta la frase “Let me take you down/ cause I’m going to”, proprio sul “to” comincia la versione rallentata. L’atmosfera irreale di “Strawberry” proviene in buona parte da quel cantato frenato e strascicato. “Strawberry fields”, registrata nel periodo di “Sgt. Pepper”, non finì sul disco, fu edita come singolo 45 giri, sul lato B c’era “Penny Lane”. Una specie di suicidio commerciale. Due pezzi di punta si annullarono a vicenda, finirono in classifica come singoli separati, non arrivarono al primo posto.

 

Alla fine tutto “Sgt. Pepper” è una manipolazione continua di suoni e atmosfere. Sulla struttura realistica e sul robustissimo formato della canzone pop i Beatles insieme a Martin hanno costruito una lunga teoria di pazzie controllate. Nastri rovesciati e altri esperimenti coi registratori, echi, specialmente sulla voce di Lennon, strumenti classici suonati in modo inverosimile (la scrittura per archi di Martin fa scuola) o usati come rumore, come nell’interludio di “A day in the life”, in cui Martin convocò un’orchestra di quaranta elementi e chiese ai musicisti di suonare il loro strumento dalla nota più bassa a quella più acuta.

 

Parlando di “Sgt. Pepper” si parla del cuore della malizia beatlesiana. Questo enciclopedico poster della Summer of love del 1967 è un campione senza uguali di pop culture. Ma da queste parti sembra più una vendetta dello spirito inglese – spirito dell’umorismo e del limerick – che un vero manifesto postmoderno. La vendetta storica di una cultura affetta da sfiga musicale che pareva irrimediabile, attaccata da Nietzsche con queste parole: “Quello però che ci offende anche nell’inglese più umanizzato è la sua totale mancanza di sentimento musicale“. “Sgt. Pepper” è anche, per forza di humour, un disco fatto di reticenze. Di leggende più o meno accreditate, come quella sulla presunta morte di Paul, sui rifermenti all’Lsd di “Lucy in the sky with diamonds”, eccetera. Così George Martin riassume “Sgt.Pepper”: “Ma cos’era in definitiva? Nessuno lo sa per certo, nessuno può dirlo. Ecco probabilmente qual è la sua forza più grande: la sua oscurità quasi totale. La gente era convinta che dovesse esserci per forza qualche senso nascosto. La copertina ad esempio. Perché stiparci dentro tutte quelle icone culturali se non c’era un significato preciso? Perché stamparci i testi sopra, cosa che non si era mai vista, se i Beatles non avevano intenzione di dire qualche cosa di preciso? E poi c’era l’assoluta ambiguità delle parole. Potevi passare giorni e giorni a rivoltarle in qualsiasi modo, ma non ne venivi a capo”.

 

[**Video_box_2**]E sulla copertina di “Sgt. Pepper” fatta da Peter Blake si sono esercitati tutti, a capire chi potessero essere i personaggi raffigurati. C’è Aleister Crowley e c’è Karlheinz Stockhausen, c’è Dylan Thomas e c’è William Burroughs, c’è Karl Marx e c’è Albert Einstein. Non c’è Adolf Hitler, ma doveva esserci. John Lennon lo aveva incluso nella lista, ma alla fine fu censurato dal capo della Emi, Joseph Lockwood.

 

E tornando al bar del Pigneto dove ancora la vecchia malizia beatlesiana circola indisturbata bisogna registrare che che lo zimarruto al tavolo ha fatto girare la macchinetta e si è rullato una sigaretta. E che la canzone, la vecchia “A day in the life”, è quasi terminata. L’accordone di pianoforte della durata di un minuto e passa è esaurito. Parte la bizzarra cantilena, il cosiddetto “inner groove” di “Sgt. Pepper”. Si tratta di una frase velocizzata e ripetuta, sembra uno scherzetto, fa: “Never could see any other way”. Pitta il destino della pop music. “Non riuscirai mai a vederla in un altro modo”. Ci manca solo un bel Mooreeffoc, qui al wine bar del Pigneto.

 

PS: Nella notte tra il 30 e il 31 marzo qualcuno ha dato fuoco al bar Necci. I proprietari hanno scritto sul sito www.necci1924.com: da domani ci rimboccheremo le maniche per un Necci ancora più bello di prima“. L’autore dell’articolo appoggia i gestori e promette che al Necci tornerà, con tanto di zimarra grunge (comprata apposta) e macbook d’ordinanza.

Di più su questi argomenti: