Linus (foto LaPresse)

Ve lo diamo noi il palinsesto

Giulia Pompili
Perché 5 milioni di abbonati alle pay tv e twittaroli fanno lo stile della tv italiana? Lo spiega Linus. Quando Benji & Fede sono finiti a Sanremo è stata una piccola rivoluzione. Su Twitter (quasi) tutti sapevano chi fossero

Benjamin Mascolo e Federico Rossi sono due ventenni emiliani. Per il pubblico sono Benji & Fede da circa sei anni. A fine 2015 hanno pubblicato un album con la Warner Music Italia (disco di platino), oltre ad alcuni singoli, e a fine marzo uscirà il loro libro edito da Rizzoli: “Vietato smettere di sognare”, che ieri era trend su Twitter. Ecco, però, viene da domandarsi: voi questi Benji & Fede li conoscete? Sì, li conoscete, ora ve li ricordiamo: “Siamo musicisti e facciamo musica”, scrivono su Facebook. A febbraio sono finiti improvvisamente nelle televisioni di poco più di dieci milioni di italiani, partecipando al Festival di Sanremo nella serata delle cover, cantando “A mano a mano” di Cocciante insieme con Alessio Bernabei. Benji & Fede non hanno mai partecipato a un talent show, e a Sanremo giovani nel 2015 erano stati scartati. Loro vengono direttamente dal mondo del web: hanno iniziato caricando video su YouTube e poi sulla pagina Facebook. E come loro ha fatto Frank Matano – in origine “lamentecontorta” di YouTube, poi, dopo il successo su internet, è arrivato a “Ti lascio una canzone” di Antonella Clerici, passando per un paio di film con Paolo Ruffini e Claudio Bisio, “Le Iene” su Canale5 e “Italia's Got Talent” su Sky. C’è poi Guglielmo Scilla, al secolo Willwoosh, che nasce su YouTube e ha condotto per quattro anni una trasmissione su Radio Deejay, oltre ad aver recitato in alcune pellicole cinematografiche italiane, serie web e serie tv (è il protagonista di “Baciato dal sole”, fiction Rai in onda in questi giorni). Tra le donne la più celebre è Clio Zammatteo, che sul suo canale YouTube “ClioMakeUp” (parliamo del 2008, praticamente un secolo fa per i tempi di internet) spiegava alle fanciulle l’arte del trucco, e grazie al successo di internet è finita a farlo in tv, su Real Time.

 

Quando Benji & Fede sono finiti a Sanremo è stata una piccola rivoluzione: mentre parte degli spettatori del Festival Rai guardavano interrogativi i due ragazzotti tatuati con ciuffo alla Grease (ci sono tutorial su YouTube per pettinarsi come loro, naturalmente) ecco, su Twitter (quasi) tutti sapevano chi fossero. Quando Clementino ha detto sul palco dell’Ariston “deux fritture”, e il pubblico generalista aveva già etichettato l’espressione come un moderno modo di salutarsi tra giovani, chi aveva visto “Gomorra – la serie” sapeva che il rapper di Avellino si riferiva alla parodia online dei The Jakal (toh, altri YouTubers). La celebre serie di Sky “Gomorra” a Saremo c’era già stata grazie a Genny Savastano (alias Salvatore Esposito) che aveva lanciato un messaggio d’auguri a Clementino. E sempre sul palco dell’Ariston c’erano state le ospitate di Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri, star dei fornelli grazie al successo di “Masterchef” e di “Cucine da incubo”. Quest’anno, al Festival della canzone italiana, c’era più “X-Factor” che “Amici di Maria de Filippi” di Mediaset, per un semplice motivo di numeri: il talent show della pay tv, oltre ai ragazzi che vi hanno partecipato, aveva anche i suoi vecchi giudici in gara, con Morgan, Arisa, Elio.

 

Ma come è possibile che un programma che tra puntate live e repliche (tutte su tv a pagamento) è visto da una media di due milioni e mezzo di spettatori influenzi così tanto anche i programmi della tv generalista? Come è possibile che perfino Sanremo, quest’anno più di altri anni, sia stato colonizzato dai prodotti “di nicchia”, con un target di spettatori ben preciso, quelli della tv a pagamento e di internet? Parliamo di poco meno di cinque milioni di abbonati per Sky, a cui si aggiungono gli abbonati a Netflix (Jaime D’Alessandro ha scritto su Repubblica a fine gennaio che si tratta di 280 mila abbonati) e quelli a Sky online e Infinity di Mediaset (in totale circa 420 mila persone). “Sono quelli che possono permettersela, questa influenza”, dice al Foglio Pasquale Di Molfetta, meglio noto come Linus, che frequenta radio e televisioni italiane da più di vent’anni, fa il disk jockey da quaranta e guida Radio Deejay dal 1994 (mica a caso un anno rivoluzionario per la comunicazione italiana, l’anno in cui Berlusconi lascia Fininvest a Fedele Confalonieri per dedicarsi alla politica). Per Linus quell’8 per cento della popolazione italiana influenza tutta la comunicazione televisiva per una ragione: ha una motivazione: “Non è per tutti pagare per vedere la tv, ovviamente. Ma chi paga, ha anche una forte motivazione, ed è questo l’elemento più importante. Siamo tutti bravi a lamentarci, parlando delle cose che potrebbero esserci e non ci sono, ma certe volte bisogna anche andarsele a cercare, quelle cose”. E quindi internet, i programmi on demand, e Sky: “Loro sono un po’ degli alieni nel panorama televisivo italiano, però fanno la televisione che io mi aspetto si faccia nel 2016. Non mi sorprendono, il dramma è che ci sono altri canali che invece fanno una tv vecchia di vent’anni. Se uno varca i confini italiani, trova canali più simili a quelli di Sky, qui invece si ritrova trasmessi dinosauri figli di epoche lontane che fanno fatica ad adeguarsi”.

 

E’ pur vero che Montalbano e Don Matteo fanno 10 milioni di spettatori a serata, eppure non sono loro a dettare lo stile, il gusto, il trend della televisione. Insomma, perché su Twitter non si parla del parroco della chiesa di Gubbio? Non sarà mica solo una questione generazionale, quella dei nativi digitali contro le casalinghe che guardano Barbara D’Urso? Per Linus “la macchina della promozione è importante. La televisione è un prodotto, e in quanto tale ha bisogno di un meccanismo promozionale coerente, e bisogna saperlo fare. Prendi la serie tv ‘I Soprano’. Era stata messa in onda per la prima volta dalla Rai, con fortune alterne, ma era spesso confinata in angoli del palinsesto irraggiungibili. La promozione è un lavoro scientifico: in Rai devono promuovere centomila cose e magari vanno a perdersi i prodotti che hanno un potenziale”. Sono le stesse regole della radio, però: “Rispetto alla tv noi abbiamo un feedback immediato”, dice Linus, “A volte si tende a dare troppa importanza a quello che si dice sui social network. Il mondo di Twitter è un mondo microscopico che urla moltissimo, ma ha un valore relativo. La proporzione tra Twitter e Facebook è di uno a cento, eppure gli utenti di Twitter si reputano generalmente portatori di un giudizio assoluto. Noi ci siamo emancipati da questa logica, alla radio diamo spazio alle telefonate, alle email, agli sms, anche perché il nostro è un taglio diverso, siamo noi a imporre il tipo di prodotto. E’ importante sapere cosa ne pensano dall’altra parte” gli ascoltatori, non solo via Twitter.

 

Negli ultimi giorni è esploso un altro caso. La cerimonia di assegnazione dei David di Donatello, “gli Oscar italiani” (citiamo dall’articolo che Ariston Anderson ha scritto su Hollywood Reporter qualche giorno fa non per esterofilia ma per obiettività) quest’anno sarà prodotta e trasmessa da Sky e non più dalla Rai. L’evento andrà in onda in prima serata, e sarà accompagnato da una programmazione ad hoc e da tutto il metodo promozionale possibile. Dopo sessant’anni il cinema italiano – quello del giardinetto del “cinema come Arte”, quello del “servizio pubblico” contro Checco Zalone – si piega alle dinamiche del mercato? “Il mondo del cinema ha un’inconcepibile resistenza ai cambiamenti. Ancora oggi hanno un modo di promuovere il cinema che è lo stesso degli anni Settanta: esce il film, e nel giro di tre giorni i protagonisti devono andare dappertutto. E’ ora di uscire da questa logica”, dice Linus, “anche la serata dei David era relegata alla seconda serata di fine giugno, ma è pur vero che per fare un buon servizio servono investimenti”. Oltre ai soldi, qual è il problema della Rai, oggi? “La burocrazia, la frammentazione del potere. Ma sono gli stessi problemi che ha Mediaset. Mi fa un po’ tristezza, a volte, vedere Mediaset annaspare così: io ci sono cresciuto a Cologno, ho fatto molte cose lì durante gli anni Ottanta, e allora era una televisione giovane e innovativa. Adesso si è avvitata su se stessa con delle logiche che sono quelle inevitabili di una piccola realtà”. Eppure non tutto è perduto, secondo Linus: “La Rai è in una fase di cambiamento. Continua a essere considerata fatta per un pubblico di anziani ma sta cercando di uscire da questa logica. Non ci si può aspettare che da domani si rivoluzioni, ma l’importante è che si scardinano certi meccanismi che hanno portato alla lentezza, ai vincoli di oggi. E poi, è molto meglio di quel che si dice”. Il nuovo direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto, giorni fa ha detto che non si vedranno più programmi di “emotainment” su Rai Uno, cioè quei programmi che puntano tutto sull’emotività e il melodramma: “Sì ma il servizio pubblico deve accontentare un pubblico che non è composto da una sola categoria di spettatori. Secondo me in certi spazi e in certe fasce l’emotainment ci sta, è l’equivalente del rotocalco della parrucchiera, il problema piuttosto è la distribuzione del palinsesto”. Ma se dovessi dare un consiglio ai nuovi direttori di rete? “Beh, tra i tre canali c’è ancora troppa sovrapposizione. Non si può differenziare un canale semplicemente buttandoci dentro la musica”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.