Nicolas Poussin, Camillo lascia il maestro di scuola ai suoi allievi (1637), Museo del Louvre, Parigi

Roma ai romani?

Alessandro Giuli

Dopo i gemelli del gol democratici, dopo il quindicennio di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, la Capitale è finita, anzi è ritornata nelle mani degli allogeni Gianni Alemanno e Ignazio Marino. Perché non bisogna stupirsi se la Capitale e i suoi soldi restano in mani forestiere (aspettando Furio Camillo).

Dice: com’è che a Roma non comandano i romani? Dopo i gemelli del gol democratici, dopo il quindicennio di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, la Capitale è finita, anzi è ritornata nelle mani degli allogeni Gianni Alemanno e Ignazio Marino. E adesso si almanacca sul perché il sindaco chirurgo, già di suo avulso dalla romanità, ha immesso nella sua giunta quattro nuovi assessori tutti forestieri. Non è soltanto un’occupazione di posti politici e di sottogoverno: lo stesso principio, la stessa diffidenza verso l’autodeterminazione romana investe le società partecipate: la maggioranza dei manager viene da fuori, l’ad di Acea Alberto Irace da Cagliari, Danilo Broggi di Atac è nato a Milano, Daniele Fortini di Ama a Orbetello. E va così persino fra lobbisti e portaborse. Vedo solo l’eccezione del prataiolo (nel senso di piazza Mazzini, sezione Pd) Matteo Orfini, ma lui è un commissario del Nazareno, controlla senza governare.

 

Concedo volentieri che i nostri siano dirigenti specchiati e di provata qualità, aggiungo che viviamo nell’èra dei cittadini del mondo, dello smart government digitale, insomma delle supercazzole tecnologiche in virtù delle quali crediamo possibile segnalare o addirittura tappare una buca romana servendosi di una app concepita, chessò, a Singapore. Epperò capisco pure il pensoso stupore del mio amico Salvo, quando mi dice: secondo me il tassista che oggi mi ha portato in redazione potrebbe fare l’assessore alla Viabilità meglio di qualunque politico non romano; non capisco perché non pretendiate un sindaco e una squadra che siano di qui, che conoscano la città a memoria, gli umori profondi, i sensi unici… Lo capisco eccome, Salvo, tanto che nei momenti d’insolazione estiva comincio a immaginare che cosa farei io, romano di millenni fa, sul Campidoglio con la fascia tricolore a tracolla (ma spunterebbe prima una Giorgia Meloni a dire: “No, lui no, è pagano!”).

 

Dunque Roma ai romani? Forse no, devo ammettere. A parte il fatto che bisognerebbe intendersi su cosa significhi essere romano, ma è una storia lunga. Rammento però questo: l’Urbe conobbe governanti romani di straordinaria grandezza, a cominciare dal primo sindaco Michelangelo Caetani (famiglia risalente ai tempi dell’Eneide), e poi Pamphili, Pallavicini, Ruspoli, Torlonia, Colonna. Si era nell’Ottocento, la Capitale era stata appena liberata grazie ai piemontesi e al nizzardo Garibaldi. Fatta l’Italia, bisognava rifare i romani dopo che un millennio e mezzo di sovranità papale aveva prodotto troppi marchesi del Grillo e plebaglie egoiste, un tantino spregevoli, parecchio straccione. Ci provò anche il londinese Nathan, poi i fascisti. Niente o quasi. Oggi, archiviato l’interregno novecentesco catto-comunista, censite le macerie di Alemanno e Marino, mentre Bergoglio fuoriesce dal Vaticano, Roma si domanda ancora: sono troppo importante per lasciarmi governare dai miei nativi spendaccioni, sporcaccioni e pigramente lamentosi? A quanto pare sì, finché non spunterà un Furio Camillo a dire: non con l’oro ma con il ferro.

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