Matteo Renzi

Il goffo colonialismo degli #intellò antirenziani

Guido Vitiello
Quando pensano a Matteo Renzi non gli viene in mente nulla. O meglio, gli vengono in mente frasi come questa di Rino Genovese, filosofo: “Matteo Renzi è il nulla. Lo dico con cognizione di causa per averlo incontrato una volta, ormai diversi anni fa, alla presentazione fiorentina di un libro”.

Quando pensano a Matteo Renzi non gli viene in mente nulla. O meglio, gli vengono in mente frasi come questa di Rino Genovese, filosofo: “Matteo Renzi è il nulla. Lo dico con cognizione di causa per averlo incontrato una volta, ormai diversi anni fa, alla presentazione fiorentina di un libro”. L’articolo, scritto a commento delle primarie del 2013, si è guadagnato un posto nel mio sciocchezzaio per molte ragioni. Per la comicità (involontaria) che si sprigiona dall’attrito tra la perentorietà dell’affermazione e l’irrisorietà del pretesto; per la boria senza limiti; perché mi ha fatto venire i capelli bianchi alla prospettiva di vent’anni di antirenzismo come copia iperrealista dell’antiberlusconismo; perché questo trattar Renzi da tabula rasa mi ha rivelato con una chiarezza senza precedenti una posa che di precedenti ne ha molti, e uno più ferale degli altri, la “Fenomenologia di Mike Bongiorno” di Umberto Eco.

 

Quel saggio, a leggerlo bene, era il ritratto bonariamente coloniale di un selvaggio televisivo: l’everyman felice della propria mediocrità, ignorante senza vergogna, impermeabile al pensiero critico, che gongola sempre e non conosce il tragico della vita. Dicevano qualcosa di Mike Bongiorno, quelle pagine? Non più di quanto il mito del buon selvaggio dicesse delle società primitive; ma consentivano a Eco e ai suoi lettori di collocarsi nella posizione degli etnologi civilizzati. Ne derivò mezzo secolo di abbagli, se pensiamo che il primo vagito dell’antiberlusconismo, “La sinistra nell’èra del karaoke” di Bobbio, Vattimo e Bosetti, si apriva con l’introduzione “Il trionfo di Mike Bongiorno” (il tono era meno bonario, però: i primitivi avevano appena messo gli etnologi nel pentolone). Il riflesso coloniale rischia di riproporsi con Renzi, trattato alla stregua di un “Naturmensch in un mondo civilizzato”, per usare la formula di Ortega y Gasset sull’uomo-massa. Leggo per esempio un divertente pamphlet di Paolo Taggi, “Il contromago di Oz” (Luca Sossella editore), dove Renzi è presentato come il “primo leader totalmente televisivo del mondo”, una sorta di nativo in gonnellino di banane; ritrovo, su Internazionale, un intervento di Christian Raimo dove si dice che Renzi è estraneo al pensiero critico, ignora “il sospetto, il dubbio, la crisi che è stata la forma mentis dell’educazione alla modernità”, e rivedo anche qui il neoprimitivo senza coscienza infelice. Un caso più interessante – e benaugurante – è “Essere #matteorenzi” (il Mulino) di Claudio Giunta.

 

[**Video_box_2**]Qui i tratti della “Fenomenologia” di Eco tornano tutti, come intoccati dal tempo: Renzi che non conosce il lato oscuro della vita; Renzi felice abitante di un mondo che non fa distinzioni tra l’alto e il basso; Renzi che non ha inibizioni, come i selvaggi. Tornano, è vero, ma tornano per bocca dell’“amico snob”, finzione retorica a cui Giunta affida, fustigandolo, il proprio voler essere #umbertoeco. Dal colonialismo ingenuo, l’antropologia del costume italiano approda alla riflessività postcoloniale. L’espediente è felicemente schizofrenico, e fa ben sperare in una stagione intellettualmente psicotica in cui ciascuno si azzufferà nella propria testa con l’amico snob. Foss’anche solo per non finire di nuovo nel pentolone.

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