Foto Ansa 

L'analisi

È tornato El Niño e facciamo bene a essere preoccupati

Giulio Boccaletti

L'impatto delle temperature destabilizza la produzione agricola. Noi godremo della stabilità che ci viene da un sistema alimentare globale, ad altri andrà molto peggio

Da febbraio di quest’anno, le temperature del Pacifico orientale all’equatore sono aumentate. Un grado e mezzo circa, sufficienti perché il 4 luglio scorso l’Organizzazione meteorologica mondiale annunciasse l’inizio di un nuovo El Niño. Il fenomeno quasi periodico ricorre ogni due-sette anni e dura svariati mesi. L’ultima volta è stato nel 2016, quando il pianeta raggiunse le temperature più alte mai registrate fino a quel momento. Ci vorrà almeno un altro mese per capire come si svilupperà, ma è probabile che questo El Niño durerà per tutto il resto dell’anno e parte del prossimo, spingendo le temperature globali ad aumentare in media oltre gli 1,5 gradi codificati nei trattati di Parigi come limite da non superare. Questo non significa che le temperature nel lungo periodo avranno ecceduto i limiti degli accordi internazionali: il fenomeno è temporaneo, inevitabilmente rimpiazzato dalla sua fase opposta, La Niña, e la temperatura tornerà sulla tendenza degli ultimi anni.

Ma El Niño è una sorta di esperimento naturale: un fenomeno che ci permette di intravedere che cosa ci aspetta con l’aumentare della temperatura del pianeta. E cosa succede durante un El Niño si sa: anomalie meteorologiche un po’ ovunque, da precipitazioni estreme nel meridione degli Stati Uniti, nel corno d’Africa e in Asia centrale, a siccità in Australia, Indonesia e India. Questi fenomeni meteoclimatici si traducono poi in impatti sull’agricoltura, ed è su questa che bisogna puntare lo sguardo per vedere cosa ci aspetta. Gli eventi del passato, dalla crisi alimentare degli anni Settanta all’impennata di prezzi del 2010, ci hanno mostrato che gli shock alla produzione si propagano rapidamente, dai mercati globali a quelli locali, e attraverso le catene di valore per raggiungere il costo di tutti i prodotti derivati. In un mondo in preda a un’inflazione irriducibile, una crisi alimentare potrebbe essere dietro l’angolo se El Niño destabilizzasse sufficientemente la produzione.

Ci sono buone ragioni per essere preoccupati. Dopo l’estate disastrosa dell’anno scorso e la primavera calda di quest’anno, la Cina (un po’ come la Romagna da noi) si è ritrovata nei giorni scorsi ad affrontare alluvioni nel sudest del paese, con pesanti impatti su persone e agricoltura. Dato che la Cina rappresenta più del 20 percento della produzione cerealicola globale e oltre la metà delle riserve del mondo, il destino della sua produzione e le sue risposte politiche importano parecchio.

E poi c’è la guerra in Ucraina, che ha messo fuori produzione una buona parte del territorio agricolo del paese. Il conflitto si vede nei dati. In media negli ultimi cinque anni, l’Ucraina produceva 26 milioni di tonnellate di grano all’anno (dati Fao). L’anno scorso ne ha prodotte solo 20 e quest’anno ci si aspettano 18 milioni di tonnellate. Questo significa togliere dal mercato l’equivalente di tutto il grano prodotto in Italia. Dati questi aneddoti, è facile immaginare che ci si trovi sull’orlo di un baratro, pronti a subire l’ultima spinta di un evento come El Niño. Ma i dettagli qui importano. Nonostante le condizioni difficili, le previsioni globali per il 2023 sono di un nuovo picco di produzione cerealicola: 2,8 miliardi di tonnellate circa. Secondo la Fao, l’Unione europea produrrà più di quanto non ci si aspettasse qualche mese fa, nonostante la siccità in Spagna, grazie a condizioni tutto sommato benigne. Ci si aspettano anche raccolti più abbondanti dal Canada e dagli Stati Uniti, grazie ad un numero record di ettari seminati (nonostante la siccità continui a limitarne la produttività), e migliori produzioni da Kazakhistan e Turchia. Il sistema alimentare, quindi, è più resiliente di quanto le vicende nazionali non suggeriscano. Il commercio aiuta a bilanciare domanda e offerta, offrendo un meccanismo compensatorio. Inoltre, il rapporto tra riserve e produzione si è attestato appena sopra il 30 percento, un numero alto rispetto al 15 percento osservato durante la crisi alimentare degli anni Settanta. Ancora più rilevante è il rapporto tra riserve nazionali e la somma della domanda interna ed esportazioni (il cosiddetto “stock-to-disappearance ratio”) dei paesi esportatori: la previsione per quest’anno è del 20 percento, lontano dal 7 percento che Stati Uniti e Francia, fornitori storici del nord Africa, ebbero durante la crisi del 2010. Questa stabilità si manifesta nei prezzi all’ingrosso, che, come ha notato la Fao nel suo comunicato di giugno, sono rimasti relativamente stabili o in leggera discesa rispetto all’anno scorso (ancorché alti rispetto alla media decennale). Insomma, il sistema è resiliente e dovrebbe essere in grado di affrontare gli impatti di El Niño. Tutto bene quindi? Non proprio. 

Il problema è che il sistema non include tutti. El Niño colpirà molti di coloro che non hanno riserve e sono fortemente dipendenti da aiuti. Di nuovo, la Fao lista 45 paesi che hanno bisogno di assistenza alimentare già ora, di cui 9 in Asia e 33 in Africa. In nord Africa, precipitazioni erratiche hanno aumentato il bisogno di importazioni cerealicole. Oltre 40 milioni di persone in Africa occidentale sono in crisi alimentare, inclusi un paio di milioni che si trovano in uno stato di emergenza. Nell’Africa del sud, nonostante il ciclone Freddy, la produzione cerealicola è rimasta stabile, ma è estremamente vulnerabile agli effetti sulla precipitazione di El Niño. E lo sono anche le popolazioni di Sudan, Kenya, Tanzania, Somalia e Uganda a causa dell’erraticità delle piogge. Da questa descrizione un fatto dovrebbe saltare all’occhio. Molto di questi paesi sono bacini dai quali proviene una buona parte della migrazione verso l’Europa. Si tratta di un archetipo ricorrente. Alla fine dell’Età del bronzo, intorno al 1200 a. C., migranti in fuga da condizioni climatiche e agricole avverse, i cosiddetti “Popoli del mare”, si spostarono verso il ricco Mediterraneo orientale, destabilizzandolo. Il sistema commerciale di egizi, ittiti, micenei, collassò. Quell’episodio, che poi si è ripetuto molte altre volte nella storia umana, ha dimostrato che i potenti sono spesso colti di sorpresa dalla sofferenza dei più vulnerabili. Dopo sette anni di assenza, El Niño è tornato. Nei prossimi mesi, noi godremo della stabilità che ci viene da un sistema alimentare globale, integrato e resiliente. Ma non dimentichiamoci di guardare oltre il muro. Osserviamo con attenzione ciò che El Niño farà alle condizioni di vita di coloro che quella stabilità non hanno. La loro insicurezza potrebbe diventare anche la nostra.

Di più su questi argomenti: