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A trent'anni dalla strage di Capaci

Il 23 maggio 1992 lungo l'autostrada che collega l'aeroporto a Palermo, un attentato ordito da Cosa Nostra uccise il giudice Giovanni Falcone

Trent'anni fa lungo l'autostrada che collega l'aeroporto a Palermo, un attentato ordito da Cosa Nostra uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. Fu una delle più grandi stragi mafiose, nello stesso anno in cui la mafia uccise anche il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta in via D'Amelio. Come ogni anno a Palermo si commemorano gli uomini dello stato che persero la vita per mano della mafia. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui fratello maggiore Piersanti, ex presidente della Regione Sicilia, fu anch'egli assassinato da Cosa Nostra nel 1980 oggi sarà nella sua Palermo, al Foro Italico, per ricordare le vittime.

 

Quello di Falcone e Borsellino, ha detto il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, dopo aver deposto una corona di fiori a sul luogo dell'attentato, "è un insegnamento fatto di forza e di determinazione, di coraggio nell'affrontare tutte le situazioni difficili e sta avendo risultati. Sconfiggere la mafia non è mai semplice. Anche la scossa che ha avuto la società civile secondo me ha rappresentato un ulteriore passo avanti nella coscienza di tutti noi".

 

Strage di via D'Amelio: la falsa narrazione sulla mafia e la trattativa smontata dai processi

La strage di via D'Amelio è servita anche a rinfocolare tutto un repertorio che vede la morte di Borsellino e Falcone iscritte a quel filone investigativo chiamato "trattativa stato-mafia". Teoremi spesso smontati dal lavoro delle stesse procure siciliane, che hanno sì accertato in via giudiziale un lavoro di depistaggio (a causa dell'eccessivo credito dato a un "pataccaro" come il pentito Vincenzo Scarantino da parte di un manipolo di poliziotti), ma anche marginalizzato l'ipotesi della trattativa. Ultimamente si era iscritto al registro delle fonti delle verità occulte il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che ha raccontato a Michele Santoro di aver piazzato con le sue mani la fiat 126 fatta esplodere sotto all'abitazione della madre e della sorella del magistrato. Solo che per la stessa Procura di Caltanissetta D'Avola non è né attendibile né credibile

 

Letture dall'archivio del Foglio