Ava DuVernay (foto Ansa)

Venezia 2023

Più ideologia che cinema: a Venezia arriva Ava DuVernay, con una missione da compiere

Mariarosa Mancuso

Verso il finale, il Festival si appesantisce e arrivano i film impegnati. Come quello della prima regista afroamericana in concorso. Poi c'è “Lubo”, di Giorgio Diritti, ultimo italiano in gara

Verso il finale, la Mostra di Venezia si appesantisce. Arrivano i film impegnati. Ava DuVernay, per esempio. Prima regista afroamericana in concorso, forte nell’ideologia e debole nella cinematografia. “Origin” è il secondo film tratto da bestseller, l’altro era “L’ordine del tempo” di Liliana Cavani & Carlo Rovelli (uniti, anche nella sceneggiatura, terzo mestiere del fisico & divulgatore). Già uscito nelle sale, vanta il solito cast da commedia italiana riunito a Sabaudia per un compleanno. Mentre sta per arrivare la fine del mondo.

Ava DuVernay aveva lanciato l’hashtag #oscarsowhite: funzionò per un anno o due, prima che arrivasse il #MeToo. “Origin” racconta la stesura di un saggio, pratica perfino meno spettacolare del romanziere che come Colin Farrell-John Fante si mette alla macchina per scrivere in italica canottiera (succedeva nel film di Robert Towne “Chiedi alla polvere”). Ricerche in biblioteca, schemi alla lavagna, ipotesi di lavoro da discutere con i colleghi, lezioni universitarie, colloqui con gli editori. Un paio di pesanti lutti familiari, il saggio deve continuare. E’ la vita vissuta di Isabel Wilkerson, che si irrita quando sente la parola “razzismo”: sostiene che lo schiavismo e la segregazione vadano paragonati all’Olocausto e al sistema delle caste in India. La aiuta un “dalit”: appartiene all’infima casta degli intoccabili ma è riuscito a diventare professore universitario. La collega berlinese è meno convinta.

Ava DuVernay ha una missione da compiere, messaggi da trasmettere, un’incrollabile ideologia. Risultato: otto minuti di applausi (molto vantati, ma bisogna tenere presente che “The killer” di David Fincher ne ha avuti sette – con grande stupore del regista, poco pratico di come vanno le proiezioni a Venezia, se c’è il regista in sala). Purtroppo non è molto brava a fare il cinema, se togliamo le scene strappalacrime e la saggista che fieramente procede senza lasciarsi scoraggiare da nessuno.

La maratona dei sei italiani in gara – in prima posizione, molto staccato dal gruppo, “Enea” di Pietro Castellitto – si chiude con “Lubo” di Giorgio Diritti. Titolo infelice, per un film che racconta la sciagurata politica della Pro Juventute elvetica. A partire dal 1926, e per quasi mezzo secolo, si mise d’impegno per sottrarre i bambini jenisch alle famiglie, metterli in collegio, o farli adottare da famiglie benestanti. Nomadismo e vagabondaggio non erano in linea con i valori della confederazione. Lubo gira di villaggio in villaggio con la moglie e i tre figli. E’ un saltimbanco, fa spettacoli in piazza. L’esercito svizzero lo arruola per difendere la patria (neutrale, ma meglio essere preparati al peggio). Durante la sua assenza, i gendarmi gli uccidono la moglie e gli portano via i bambini. Diserta quasi subito, coglie un’occasione e si fa accettare in società. Seducendo e ingravidando le signore a cui vende gioielli: vendetta per i suoi bambini mai ritrovati (la storia viene dal romanzo “Il seminatore”, di Mario Cavatore). Franz Rogowski ha una sola espressione, e possiamo garantire che a Bellinzona nessuno in quegli anni toscaneggiava dicendo “babbo”. 

La correttezza geografica e le quote di genere hanno portato a Venezia la regista belga Fien Troch con “Holly”. Quasi peggio del metaverso: il paranormale. Una ragazza resta assente da scuola proprio il giorno in cui scoppia un incendio che uccide una decina di studenti. Prima se ne stava tutta sola – la chiamavano la strega – ma appena fa la volontaria nella gita dei superstiti rivela un’insospettabile empatia. Tutti cominciano a cercarla, ma le buone azioni quasi mai restano impunite.