Divi, duci, papi, caimani

Com'è fosco il potere raccontato dal cinema italiano

Andrea Minuz

Da Sorrentino a “Sono tornato”, passando per Moretti, la filmografia d’autore è sempre in bilico tra due registri narrativi: il grottesco da un lato e la denuncia, l’indignazione dall’altro. I rituali, la messa in scena

Berlusconi è un archetipo dell’italianità e attraverso di lui puoi raccontare gli italiani”, dice Paolo Sorrentino spiegando il suo prossimo film, “Loro”, ennesimo tentativo di afferrare l’inafferrabile essenza del Cav. e ulteriore capitolo di una filmografia “ossessionata dal potere”. “L’uomo di potere è per definizione misterioso, la gestione del potere è misteriosa, c’è sempre una strana convergenza tra l’uomo di potere e il mistero. Valeva per Andreotti, Cuccia e Craxi”. Vale quindi anche per Berlusconi. In Italia, il faccia a faccia con il potere è un passaggio obbligato per ogni regista che aspiri alla perennità dell’“autore”. La carriera di Sorrentino è in tal senso esemplare. Fino all’incompreso “L’amico di famiglia”, passato al Festival di Cannes nel 2006, è un promettente regista dotato di uno sguardo personale. Ha vinto il Premio Solinas con la sceneggiatura del suo primo film “L’uomo in più” (2001), ha incantato critica e cinephiles con “Le conseguenze dell’amore”, ha fatto incetta di “David” e “Nastri”. Il pubblico si accorge di lui, ma tutti sappiamo che manca qualcosa. Tutti sappiamo che è solo con “Il Divo” che si può diventare “auteur” all’italiana. Non basta essere un buon regista, né costruire storie avvincenti, immagini portentose. Bisogna avere qualcosa da dire sul “potere”. Nel dubbio, confermare quello che sul potere sappiamo già. Se Berlusconi è un “archetipo dell’italianità” il gioco di equivalenze tra “potere” e “mistero” è l’algoritmo del cinema italiano. Il potere come zona d’ombra, inganno, complotto, mistero, il potere come “metafisica del potere” è uno dei tratti profondi dell’ideologia italiana che proprio nel cinema ha trovato uno dei suoi sviluppi ideali. Ce lo ricorda un agile saggio di Gianni Canova (docente universitario alla Iulm, scrittore, critico cinematografico tra i più in vista nel panorama italiano), “Divi, duci, guitti, papi, caimani. L’immaginario del potere nel cinema italiano da Rossellini e The Young Pope” (Edizioni Bietti); è un libro in bilico tra immaginario cinematografico, filosofia politica e antropologia italiana, con dentro Sorrentino e Grillo, Pasolini e Fantozzi, Gianbattista Vico, Moretti e Bellocchio. Canova parte da una domanda all’apparenza semplice, una domanda di quelle che contengono già la risposta, salvo poi accorgerci che quella risposta forse non basta: Perché l’idea che il potere possa anche essere “buono” è così impraticabile nel nostro cinema? Prima che con una condanna del potere, molti film hanno a che fare con questa impossibilità.

 

Il faccia a faccia con il potere, passaggio obbligato per ogni regista che aspiri alla perennità dell’autore. La carriera di Sorrentino esemplare

Ogni riflessione sul potere è irrimediabilmente intrecciata alle immagini che lo raccontano, celebrano, denunciano. Ogni analisi del potere deve anche misurarsi con le rappresentazioni, le maschere, i rituali, le messe in scena del potere. Ma già quando diciamo “maschere del potere” è soprattutto di noi che stiamo parlando, ovvero di uno specifico modo tutto italiano di avvicinare l’idea di potere. Bisogna partire dai due registri narrativi principali con cui il cinema italiano ha messo in scena il potere: il “grottesco” da un lato, e la “denuncia”, l’“indignazione” dall’altro. In entrambi i casi, prende forma un’idea sostanzialmente negativa del potere: il potere come colpa, o vergogna, o delitto, un’idea divorata da uno schematismo ideologico che appare indifferente alle trasformazioni sociali, storiche, culturali, politiche. Settant’anni di democrazia e vita repubblicana non hanno minimamente scalfito un immaginario del potere ancora legato all’idea di malvagità, di cospirazione, con tutto il lessico dell’intrigo e della sopraffazione che ne deriva – “il Palazzo”, “le segrete stanze”, i “Poteri occulti, i “Poteri forti”, “la casta” – traghettato dal cinema d’impegno civile ai talk show di La7. Se la commedia all’italiana è stata il luogo di una rielaborazione della lotta di classe come battaglia tra “culture di gusto” e stili di vita (dai Vanzina a Virzì, fino all’ultimo film di Riccardo Milani, “Come un gatto in tangenziale”), il cinema d’autore si è soprattutto misurato con i “fantasmi del potere”. Inafferrabile per definizione, il potere diventa così il correlativo oggettivo del “sublime”, la garanzia di una tensione verso le profondità dell’assoluto nella sua variante laica e indignata.

 

Di là, con Churchill o Lincoln, l’epica e la politica come palcoscenico mondiale, di qua la politica come carnevalata, teatrino, “bagaglino”

“L’idea che il potere possa avere a che fare con la democrazia”, scrive Canova, “cioè che possa consistere prima di tutto nel governo delle istituzioni in vista del raggiungimento del bene comune, non ha mai avuto una grande presa su registi, sceneggiatori e produttori, che hanno preferito raccontare il potere come arbitrio, controllo, dominio, un potere che nasconde quasi sempre qualcosa, spietato, feroce, malvagio, oppure viscido, mellifluo, felpato”. Niente “King’s speech”, niente “Darkest Hour”, niente attori che si calano nei panni di Churchill o Lincoln seguendo prospettive opposte alle maschere di Andreotti o Berlusconi indossate da Toni Servillo. Di là l’epica e la politica come palcoscenico mondiale, di qua la politica come carnevalata, “teatrino”, “bagaglino” upper class. D’altronde, non soltanto il potere, ma anche la modernizzazione, l’industrializzazione, il “miracolo economico” sono stati raccontati dal cinema come fenomeni negativi. Dietro la facciata del benessere (la “maschera”, di nuovo) la modernizzazione minacciava la coesione sociale, la famiglia, i valori tradizionali, devastava il paesaggio italiano, trascinava con sé il “disastro antropologico” di cui Pasolini si fece cantore. La commedia all’italiana degli anni Sessanta voleva offrirsi come la nemesi moralistica del “boom” ma per fortuna ha finito con l’essere qualcos’altro (ambigua, multiforme, cinica, capace di intrecciare l’euforia e i timori della modernizzazione in un’ineguagliabile sintesi inventiva di dramma, commedia, tragedia). Ci riuscì grazie alla sua strampalata compagine: era un cinema scritto da intellettuali di sinistra, prodotto da industriali anticomunisti, sorvegliato dalla censura cattolica. Un formidabile “patto del Nazareno”, un’armata Brancaleone politicamente e moralmente inclassificabile. La commedia ha costruito un gigantesco “specchio del paese” pieno di distorsioni, caricature, esagerazioni ma con un impianto di fondo realistico. Personaggi, situazioni, oggetti e simboli della modernizzazione (il “cumenda”, l’imprenditore cialtrone, la Seicento, la pelliccia, le cambiali, le vacanze a Cortina) erano presi dalla cronaca e dall’osservazione dei tipi umani del “boom”. Con il racconto del “potere” le cose si complicano. Il realismo non basta. Il cinema italiano si fa pirandelliano. “Sembra quasi un paradosso”, scrive Canova, “ma più che con il potere il cinema italiano sembra aver avuto a che fare con la sua natura fantasmatica. O con la sua invisibilità. O con la sua inafferrabilità. La cultura che ha prodotto alcune delle più importanti teorie e riflessioni sul potere – da Machiavelli a Vico fino a Norberto Bobbio – è anche quella che più si è trovata a disagio nel momento in cui la società mediatica ha posto il problema della sua rappresentazione. Inseguendo i fantasmi del potere il cinema italiano sarà costretto a infrangere i canoni del realismo. Si aprono nuove strade e possibilità, ma ci si scontra anche con i limiti di un discorso che rifiuta le forme del romanzesco, dell’epica, del racconto. D’altro canto, se il Potere è un fantasma, un’entità astratta, sempre invisibile, sempre “altrove” lo si potrà mettere in scena senza altri vincoli che quelli della fantasia. Come le “fantasie di potere” del “Caimano” di Moretti, più un film sull’ossessione antiberlusconiana che su Berlusconi.

 

Gianni Canova nel suo libro si chiede: perché l’idea che il potere possa anche essere “buono” è così impraticabile nel nostro cinema?

Il potere come vergogna, o delitto, una idea divorata da uno schematismo che appare indifferente alle trasformazioni sociali e storiche

Da qui deriva anche la fascinazione per la rappresentazione del potere della Chiesa, con il suo imponente apparato scenografico, i rituali, le drammaturgie arcaiche. Un rifugio sicuro per mettere in scena il potere in quanto “immagine del potere”. Parlando della serie “The Young Pope”, Canova dice che chi lo ha rimproverato di essere poco o nulla “narrativo”, di non sapere o volere raccontare una storia, “non ha capito che proprio in questo, invece, sta probabilmente uno degli elementi di forza dell’operazione: nell’aver intuito che per raccontare le strategie del potere, in Italia, bisogna rinunciare alle ambizioni dell’affabulazione per calarsi piuttosto nella dimensione del cerimoniale e della liturgia”. Come Renzi ha ben presto imparato a sue spese, la nostra idea di potere rifugge lo “storytelling”. Non ha nulla di epico, lineare, narrativo. Il potere insegue vie inestricabili. Il potere si mostra solo come “affresco”. Non a caso le immagini che meglio hanno raccontato il potere politico romano di questi anni sono quelle di “Cafonal” e “Dagospia”, e ora che il palcoscenico del paese si sta spostando ci sarebbe tutto un lavoro da fare sull’immaginario “cafonal” del briefing milanese, degli “eventi” in Fondazione, del business lunch). La trasformazione della vita in cerimonia, la teatralità diffusa, la caricatura dello spettacolo, sono gli archetipi narrativi del potere che più ci interessano. Il potere come “scenografia del potere”. Come nota Canova, il modello di racconto del potere di “The Young Pope” è il défilé, ovvero il remake della sfilata ecclesiastica di “Roma”, uno dei film di Fellini da cui Sorrentino rubacchia spesso, anche se ovviamente nel suo caso si tratta di “omaggi”, citazioni, ossequi. “Il Divo”, “The Young Pope” e “Loro” diventano così una trilogia compatta: potere temporale, potere spirituale, potere mediatico. Un’unica fascinazione per il mistero del potere visivamente costruita sulle macerie di Fellini e del fellinismo, dunque allo stesso tempo “italianissima” e esportabile. C’è parecchio “made in Italy” anche in questa concezione feudale del potere.

 

La commedia all’italiana: scritta da intellettuali di sinistra, prodotta da industriali anticomunisti, sorvegliata dalla censura cattolica

La fascinazione per la rappresentazione del potere della chiesa, con il suo imponente apparato scenografico

La natura invisibile, opaca del potere raccontato dal cinema italiano potrebbe essere la risposta all’onnipresenza del corpo del Duce, esposto, esaltato, raccontato da tutti i media durante il fascismo, primo atto della spettacolarizzazione del quotidiano dell’era moderna. “Il duce si identificava fisicamente con il potere e il popolo si identificava fisicamente con il duce”, scriveva Sergio Luzzato. Le pose, i torsi nudi, la mascella volitiva, venivano però direttamente dall’iconografia di “Maciste”, primo eroe cinematografico dell’Italia, archetipo di tutti i forzuti dello schermo, al secolo Bartolomeo Pagano, scaricatore di porto scoperto per caso a Genova e lanciato in “Cabiria”, superproduzione italiana diretta da Giovanni Pastrone e supervisionata da Gabriele D’Annunzio. Ma il Duce non ha nulla di “misterico”. Serve semmai agli scopi dell’apologo, del paradosso, della barzelletta, dello spettro del fascismo agitato nei talk-show. “Se oggi tornasse Mussolini vincerebbe le elezioni”, dice Luca Miniero per promuovere “Sono tornato”, remake di “Lui è tornato” (commedia tedesca in cui si immagina il ritorno di Hitler) che arriva in sala poco dopo “Morto Stalin se ne fa un altro”. I corpi e le immagini del potere totalitario ci perseguitano ancora perché, come diceva Hitchcock, “più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”. Ma il Duce di Miniero e Popolizio ricorda più che altro il Grillo del “V Day”. Rappresenta la deriva populista del nostro sistema dei media, la dittatura della semplificazione, dell’invettiva, l’urlo anticasta, la piazza contro il Palazzo. Il capitolo che Canova dedica a Grillo lo spiega bene. Nella tradizione comica italiana (da Dario Fo a Paolo Rossi, da Celentano a Benigni, fino a Crozza) nessuno ha portato il monologo a “forma di spettacolo assoluta, totalizzante e esaustiva come Beppe Grillo. Lui parla da solo. Gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall’alto del suo assolutismo enunciativo”. L’idea che tutto questo abbia a che fare con la “democrazia diretta”, qualsiasi cosa voglia dire, è la beffa più grande che poteva rifilarci: “Beppe Grillo incarna l’espressione più matura ed estrema dell’egemonia del monologo nella tradizione culturale e comunicativa italiana”, prosegue Canova, “il monologhista non ammette né confronti né obiezioni: costruisce un nemico assoluto e lo offre come capro espiatorio a un corpo sociale che proprio nell’odio per il nemico costituisce la propria identità”. Le letture dei pochi, brutti ma interessanti film di Grillo rivelano un progetto compatto di ascesa mediatica, portano in superficie l’insofferenza per un contesto che non lo metteva nelle condizioni di diventare “personaggio”. Il cinema gli andava stretto e Grillo era negato per la recitazione davanti alla macchina da presa. Presto scopre che la rete può essere “bigger than life” del cinema. Soprattutto, scopre che lì può costruire finalmente il suo personaggio: “il salvatore del mondo, il fustigatore dei malvagi e dei potenti” con uno stile predicatorio che parla direttamente alle oscure profondità dell’inconscio italiano, da Savonarola a Sanremo.

 

Come nota Canova, il modello di racconto del potere di “The Young Pope” è il défilé, ovvero il remake della sfilata ecclesiastica di “Roma”

Il Duce di Miniero e Popolizio ricorda più che altro il Grillo del “V Day”. Rappresenta la deriva populista del nostro sistema dei media

Grillo ci ricorda che da noi l’espressione “teatro della politica” non è solo un’iperbole giornalistica, ma la deriva inevitabile di un discorso sul potere costruito secondo lo schema della “verità” che appartiene alla “piazza” e delle menzogne dietro cui si nasconde il “Palazzo”. Grillo fa teatro, Travaglio fa teatro, Santoro vuole le scenografie ispirate al Tanztheater di Pina Bausch, Floris si aggira in uno studio a forma di teatro elisabettiano.

 

Però ogni discorso sulla nostra visione del potere non può che passare da Pasolini. Pasolini è il punto archimedico, lo zenit, il nervo centrale della ripugnanza italiana per il potere. Pasolini è l’autore di una variopinta fraseologia del potere buona per tutte le occasioni, perché “nulla è più anarchico del potere”, perché “il potere fa praticamente ciò che vuole”, “sfugge alle logiche razionali”, perché è “completamente arbitrario o dettato da necessità di carattere economico”, perché “manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler”. Le idee di Pasolini sul potere hanno il pregio di non dover passare dal banco di prova della verifica. Ambiscono semmai alla perennità della profezia: “Io so, ma non ho le prove”, di quelle occupatevi voi. Il cinema italiano ha dato forma a questa cosmologia apocalittica del potere in tutte le sue variazioni possibili: l’impunibilità del potere (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), la corruzione del potere (“Il portaborse”, “Il Caimano”), il trasformismo del potere (“Il gattopardo”, “I Viceré”), l’oscenità del potere (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”), la malvagità del potere (“Romanzo di una strage”, “Buongiorno notte”), l’“arbitrarietà del potere” (“In nome del popolo italiano”), anche se qui le cose si complicano, perché la magistratura che negli anni Settanta incarnava uno dei “poteri forti” da abbattere insieme a tutto lo Stato diventerà a partire da Tangentopoli l’ancora di salvataggio, l’argine contro la corruzione e la tracotanza del potere mediatico di Berlusconi.

 

 

Poi ci sono le allegorie del potere. Per quanto distante fosse dalla politica, Fellini ci ha regalato con “Prova d’orchestra” un formidabile apologo sulla catastrofe anarcoide del Sessantotto, sulle conseguenze della cultura del narcisismo, dell’insofferenza alle regole e a ogni principio di competenza, in breve sulle conseguenze della “democrazia diretta”. La parabola dei musicisti che si ribellano al direttore d’orchestra sostituendolo con un metronomo, l’armonia della musica collettiva che si muta in caos, l’irruzione finale di un gigantesco maglio d’acciaio che distrugge le mura dell’oratorio, si offre ancora oggi come una tra le più compiute immagini della debolezza cronica della nostra democrazia, del primato dell’ideologia sulle istituzioni, del sottile confine che separa il ribellismo e l’autoritarismo.

 

Ogni discorso non può che passare da Pasolini, lo zenit, il nervo centrale della ripugnanza italiana per il potere

La nostra visione negativa del potere, prigioniera del pauperismo e della cronica sfiducia nelle élite, si radicalizza col Sessantotto e risente ancora oggi di quelle letture d’ordinanza. Troppo Foucault e Pasolini, troppo poco Raymond Aron e Bruno Leoni. Eretici come Bertrand De Jouvenel manco a parlarne. Più montano i populismo, più appare che chiaro quanto il nostro dibattito pubblico sconti un’idea di potere schiacciata sulla sola dimensione “repressiva” e “oppressiva”.

 

Che il potere possa anche essere “buono” è dunque un’opzione impraticabile nel nostro cinema. Ma è altrettanto vero che ci manca una teoria politica liberale che faccia a meno della coercizione (e del mistero) quando tratta il problema del potere, come nel pensiero di Bruno Leoni. Anche per questo, come ricorda Canova, “il cinema americano quando mette in scena uomini di potere li chiama con il loro vero nome (JFK, Nixon, Lincoln) mentre il cinema italiano ricorre ai “tipi” e alle “maschere” (il Divo, il Duce, il Caimano). Tra le immagini più emblematiche del cinema italiano, insieme alla corsa disperata di Anna Magnani in “Roma città aperta” o Mastroianni e Anita Ekberg a mollo nella fontana di Trevi, c’è il picchetto d’onore intorno alla bara di Enrico Berlinguer, con i grandi registi del cinema italiano: Scola, Fellini, Antonioni, Rosi, Maselli, Pontecorvo. La commedia popolare, il film d’autore, il cinema politico, tutto il cinema possibile e impossibile. Un’immagine che esprime bene il nostro complicato rapporto con il racconto del potere, ovvero la difficoltà di pensare il potere al di fuori della retorica del popolo, della galassia semantica della “questione morale”, della contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati.

 

Come si ricorderà, a Giulio Andreotti “Il Divo” parve una forzatura poiché il film di Sorrentino lo faceva parlare con persone che non aveva mai conosciuto. Una reazione stizzita che invece confortava il regista perché ai suoi occhi confermava casomai, “la forza del cinema rispetto ad altri strumenti critici della realtà”. Questa concezione del film come indice ammonitore puntato contro il potere, il film come macchina processuale che si sostituisce alle carenze di una giustizia incapace di raggiungere la Verità con la maiuscola, si consolida nel contesto del cosiddetto cinema “civile” degli anni settanta, anche se ovviamente viene da lontano. A quell’epoca, vennero definiti “politici” film molto diversi tra loro ma accomunati tutti da una volontà accusatoria che poteva contare sullo spostamento a sinistra della borghesia italiana, su una radicata diffidenza per le istituzioni, su una cultura del sospetto verso lo Stato che, sulla scia delle stragi e del terrorismo, inevitabilmente si radicalizzava. Un po’ come successe nel cinema americano dopo il Watergate con il cosiddetto “conspiracy-film”. Solo che lì si trattava di una tendenza del genere “thriller” in linea coi tempi. In Italia è un’ideologia di fondo, una religione laica, una visione del mondo.

Di più su questi argomenti: