Un problema di nome Francesco

Interviste fluviali, poca diplomazia e tanti incidenti. In due anni, l'atteggiamento del Papa sulla crisi russo-ucraina ha leso il prestigio globale della Santa Sede e il suo ruolo di capo spirituale. Una catastrofe

Matteo Matzuzzi

Tali posizioni manifestate pubblicamente ledono il prestigio della Santa Sede sulla scena mondiale e causano danni irrimediabili al ruolo del Pontefice come capo spirituale. È sufficiente considerare la durissima Dichiarazione pubblicata ieri dalle Chiese d'Ucraina

Papa Francesco è stato un impareggiabile comunicatore, i suoi gesti e le sue frasi pronunciate in aereo o in piazza hanno fatto discutere per mesi e anni, dal “Chi sono io per giudicare un gay?” ai guai che toccherebbero a chi offendesse la mamma: “Gli do un pugno”. Giornalisti e osservatori impegnati a chiedersi cosa volesse dire, a chi si stesse rivolgendo, quale fosse il retropensiero rispetto all’una o all’altra frase, elevata quasi a dogma nel battage mediatico. A forza però di concedere interviste fluviali, si incappa in guai che in questi anni hanno logorato il fisico di funzionari, vescovi e cardinali passati in Segreteria di stato, che più volte hanno innalzato preci al Cielo sforzandosi di non intervenire pubblicamente per puntualizzare, chiarire, mediare ed evitare conseguenze tragiche alle uscite papali. Con un Kirill bollato come chierichetto di Putin, Francesco si è fatto maledire dal clero conservatore nazionalista ortodosso del Patriarcato moscovita; con la frase sulla Nato abbaiante ai confini della Russia ha fatto infuriare Kyiv. E di certo non bastano due paroline su quanto era umano Dostoevskij per ammansire i russi, né un abbraccio ai “poveretti” ucraini per calmarne l’agitazione, inviando loro un paio d’ambulanze.

 

Sabato scorso è uscita l’anteprima dell’intervista che il Papa ha concesso alla Radiotelevisione svizzera (Rsi). Temi forti, quelli legati alla politica internazionale. Ed è stata una catastrofe. Primo argomento: Israele e Palestina. Dice Francesco: “Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la ‘guerra-guerrigliera’, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. E’ una brutta cosa”. Già definire Hamas un “movimento” e non un gruppo terroristico quale è, è opinabile.

  

Ma è sul secondo argomento, quello relativo al fronte russo-ucraino, che le cose si fanno più complicate. Domanda dell’intervistatore: “In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?”. Risposta: “E’ un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”.

 

Domanda ulteriore: “Anche lei stesso si è proposto per negoziare?”. Risposta: “Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. E’ il coraggio per non portare il paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto…”.

 

La Sala stampa vaticana provava a mettere una toppa, per evitare danni maggiori. Impresa ardua, perché la questione della “bandiera bianca” non è equivocabile. Soprattutto se il Papa ha aggiunto che bisogna negoziare “quando vedi che sei sconfitto”. In realtà, la tempestiva precisazione vaticana – segno che ci si è accorti subito della portata imbarazzante del ragionamento bergogliano – ha puntato a chiarire che il Papa intendeva appellarsi al negoziato e che per bandiera bianca intendeva appunto tale disponibilità. Ammesso che ciò possa avere un senso, resta un problema di fondo: perché il Papa si appella all’aggredito, chiedendo a chi ha visto entrare in casa propria i carri armati russi di scendere a patti e di abbandonare retoriche belliciste? Da cosa evince, il Papa, che Kyiv è sconfitta? La Segreteria di stato gli ha trasmesso dei rapporti secondo cui la guerra è finita e Putin ha vinto? O il Pontefice è giunto a tale conclusione perché un tal presidente gli ha riferito ciò (è già accaduto in passato, quando la gaffe sulla Nato abbaiante al confine russo fu giustificata con la spiegazione che il Papa si era limitato a riportare quanto gli era stato comunicato da un capo di stato straniero) o perché qualche avventore di Santa Marta gli ha spiegato, articoli di giornali alla mano e magari chat Telegram aperte, che Zelensky è spacciato? Naturalmente, c’è da augurarsi che non sia così e la diplomazia vaticana, che resta tra le migliori e più esperte sulla scena internazionale, non può aver fornito tali assist a Francesco. O quantomeno non gli ha suggerito di renderli pubblici davanti alle telecamere.

 

C’è semmai un atteggiamento particolare di Bergoglio su questa guerra, fin dall’inizio. Il suo rifiuto di schierarsi apertamente e pubblicamente dalla parte dell’aggredito ha lasciato campo a interpretazioni e letture delle sue dichiarazioni che non di rado sono state interpretate criticamente dal fronte ucraino. Certo, una denuncia chiara della Russia avrebbe avuto poco senso, se non quello di precludersi ogni ipotetica possibilità di facilitare una mediazione. E poi il Papa non è tenuto a schierarsi dietro ai bombardieri della Nato per attaccare Mosca, non è il suo compito né è opportuno che lo faccia, dal momento che non è il cappellano d’occidente. Però c’è una via di mezzo. Da due anni, invece, dopo ogni mossa di Francesco arrivano precisazioni, chiarimenti e smentite. Francesco chiama una parrocchia cattolica a San Pietroburgo e loda “Grande madre Russia”, esaltandone la cultura (ma Putin, che pure Bergoglio un anno fa definiva in un’altra intervista “uomo di cultura”, non è Dostoevskij) e pure zar e zarine (compresi quelli che hanno tenuto l’Ucraina sottoi tacchi). E poi tocca spiegare che in realtà non voleva prendere le parti dell’aggressore ma solo auspicare che la cultura russa non fosse cancellata (da chi, poi? Il tema è forse la damnatio memoriae di Tolstoj e Cajkovskij?). Quel che è particolare non è tanto la posizione personale del Pontefice, che per retroterra culturale e geografico e semplice anagrafe non può essere un seguace delle dottrine yankee sui destini del pianeta.

 

Il fatto è che la manifesta esplicitamente, c’è in lui un pregiudizio che lo porta, se non a giustificare, quantomeno a comprendere le ragioni che possono aver esasperato l’autocrate russo. Infatti chiede a Zelensky, e non all’invasore, di alzare bandiera bianca e di rendersi disponibile a negoziare. Non si intravede mai lo step successivo, e cioè il domandarsi come possa l’Ucraina negoziare con chi ritiene che la base di partenza per qualunque dialogo sia la ratifica dell’annessione illegale della Crimea alla Russia e l’accettazione che la parte orientale del paese sia territorio  della Federazione russa. Cioè si tratterebbe di negoziare con chi non accetta null’altro che la propria vittoria e come ovvia conseguenza la capitolazione avversaria. E se poi Vladimir Putin si spingesse più a occidente, magari in Moldavia? Anche lì per evitare spargimenti di sangue bisognerebbe alzare bandiera bianca e negoziare, ovvero rassegnarsi a diventare dépendance del Cremlino? Al di là delle posizioni personali di Francesco, che sono quelle di un radicale antioccidentalismo che non si scopre da oggi, è sufficiente rileggere quel che diceva il suo maestro Juan Carlos Scannone – “Non si tratta di avere riserve sugli Stati Uniti in quanto tali, ma sugli Stati Uniti in quanto potenza egemonica. Il Papa non appoggia l’egemonia, da qualunque parte essa venga” – e di un eterno sospetto verso tutto ciò che proviene dall’impero statunitense – dal 2013 la sua visione geopolitica è stata ispirata dalla ricerca di un polo equilibratore rispetto a Washington, puntando prima su Mosca e poi (più cautamente) su Pechino –, il punto è che tali posizioni manifestate pubblicamente ledono il prestigio della Santa Sede sulla scena mondiale e causano danni irrimediabili al ruolo del Pontefice come capo spirituale. Sul primo versante, è sufficiente leggere quanto scritto su X dall’ambasciatore tedesco – non quello ucraino – presso la Santa Sede, Bernhard Kotsch: “La Russia è l’aggressore e infrange il diritto internazionale! Pertanto la Germania chiede a Mosca di fermare la guerra, non a Kyiv!”.

 

Il sito d’informazione della Chiesa cattolica tedesca, Katholisch.de ha ironizzato: “Il Papa è stato molto criticato per la sua intervista. Una delle poche reazioni positive proviene da una direzione prevedibile” (la Russia, ndr). Il Consiglio panucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose ha pubblicato una Dichiarazione in cui si legge che “nessuno, né ora né mai, costringerà il nostro popolo alla capitolazione. L’Ucraina si sta dissanguando, ma resiste per la Verità, per il diritto di essere se stessa. Capitolare di fronte al male trionfante equivale al crollo dell’idea universale di giustizia e al tradimento dei princìpi fondamentali impartiti a noi nelle grandi tradizioni spirituali”. Il Sinodo permanente della Chiesa greco-cattolica ucraina, pur non volendo soffermarsi sulle parole del Papa, sottolinea che “gli ucraini non possono smettere di difendersi perché la capitolazione significherebbe la loro morte. Le intenzioni di Putin e della Russia sono chiare ed evidenti. Non solo lui, bensì il 70 per cento della popolazione russa sostiene la guerra genocida, compresi il patriarca Kirill e la leadership della Chiesa ortodossa russa. Gli obiettivi dichiarati si traducono in azioni concrete”.

 

In un gioco delle parti, poi, si cerca di spostare l’attenzione sulla parola “negoziato”, allacciandola al rifiuto netto del concetto di “guerra giusta”, mandato in soffitta da Francesco. E si cita Giovanni Paolo II, quando stanco e malato, dalla finestra del Palazzo apostolico, gridò il suo “mai più la guerra!”, mentre l’alleanza anglo-americana stava intervenendo in Iraq, nel 2003. Ci si dimentica di citare, però, quando lo stesso Papa Wojtyla, poco più d’un decennio prima, legittimò l’intervento nell’allora Yugoslavia, dicendo che “la coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e la comunità internazionale”. Altro che bandiere bianche.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.