Ortega caccia pure i gesuiti, la linea vaticana in Nicaragua è una catastrofe

Dopo anni di tentato dialogo e profilo basso, il risultato è che il tiranno sandinista fa quel che vuole. Incarcera i vescovi, chiude le università, esilia le suore

Matteo Matzuzzi

La Provincia gesuita dell'America centrale ha però reagito con un comunicato durissimo in cui parla di "crimini contro l'umanità" e sfida apertamente la coppia presidenziale. Tutto questo mentre il vescovo Rolando Álvarez resta detenuto in un penitenziario di massima sicurezza

Roma. Il presidente del Nicaragua Daniel Ortega ha decretato lo scioglimento della Compagnia di Gesù. Secondo quanto apparso sulla locale Gazzetta ufficiale, infatti, la Compagnia è stata privata della personalità giuridica e tutti i suoi beni sono stati incamerati dallo stato. La ragione è pretestuosa, come del resto lo sono tutti gli atti del tiranno nicaraguense degli ultimi cinque anni, volti a rendere impossibile la vita della Chiesa nel paese centroamericano: secondo le autorità, infatti, i gesuiti non avrebbero redatto i bilanci dell’ultimo triennio e si sarebbero dimenticati di rinnovare il Consiglio di amministrazione scaduto nella primavera del 2020. Fine della libertà anche per le scuole collegate alla Compagnia, naturalmente, che vengono nazionalizzate. Chi pensava che con la fine dell’Uca, l’Università centroamericana retta dai gesuiti, si fosse arrivati al culmine della persecuzione, si era sbagliato: la cacciata dei gesuiti dall’ateneo, cui era stato concesso di portare con sé solo pochi effetti personali, non era altro che l’antipasto di quel che sarebbe accaduto una settimana più tardi. Ortega come il marchese di Pombal, che cacciando i soldati di Ignazio dal Portogallo rese inevitabile a Clemente XIV, nel 1773, l’emanazione della Dominus ac Redemptor con cui si decretava lo scioglimento della Compagnia di Gesù. Se non fosse una situazione drammatica, la faccenda meriterebbe d’essere trattata con ironia, con un presidente e una vicepresidente (sua moglie) che considerano un paese come fosse cosa loro, decidendo di giorno in giorno chi esiliare e chi incarcerare. Studenti, suore, preti e vescovi: chiunque non sia allineato non merita clemenza. E quando il Papa, in una delle consuete interviste non controllate, gli dà del matto, lui replica che il vero folle sta a Roma e si veste di bianco. Margini per negoziati veri ve ne sono sempre meno, dato il quadro.

 

Il regime non ha dovuto inventarsi nulla, stavolta: è bastato copiare e incollare su carta intestata le motivazioni che dal 2018 hanno portato alla soppressione di tremila associazioni. Ortega non ama il low profile: una settimana fa, quando si è trattato di requisire Villa Carmen, la residenza dei gesuiti che dirigevano l’Uca, ha spedito sul posto venti poliziotti armati. Venti uomini per cinque preti cui è stato intimato di andarsene perché “la casa è di proprietà dello stato del Nicaragua”. Il Consiglio nazionale delle università, organismo direttamente controllato dal governo, ha stabilito che l’università cambierà nome, con la dedica a uno studente morto mentre combatteva il regime di Somoza alla fine degli anni Sessanta. Il procuratore generale ha chiarito che l’ateneo gesuita non poteva restare in vita, visto che dal 2018 lì erano state commesse “attività criminali con armi da fuoco, munizioni letali, mortai, bombe Molotov e oggetti contundenti, causando notevoli perdite economiche al paese, tradendo la fiducia del popolo nicaraguense che li ha accolti nel nostro paese”. Il risultato è caotico: centinaia di studenti dell’Uca hanno tentato di passare all’Università dell’esercito, venendo però respinti perché non avevano presentato la documentazione prevista. Altri, ammessi, hanno dovuto firmare atti con cui promettono fedeltà e assicurano dedizione agli studi. Nei mesi scorsi, il governo aveva costretto le amministrazioni universitarie a consegnare i registri con tutti i dati degli immatricolati. Il motivo? Semplice: la protesta contro Ortega, cinque anni fa, è iniziata proprio nelle università, quando gli studenti scesero in piazza manifestando contro l’annunciata riforma delle pensioni. Le turbas governative, milizie che non lesinano l’uso di pistole e bastoni contro chi non ubbidisce, si diedero da fare per riportare l’ordine, con i giovani che cercarono riparo nelle chiese, in nome dell’antico diritto d’asilo previsto dalle consuetudini. I militari, a digiuno di norme e prassi, non si fecero troppi problemi a entrare negli edifici sacri, malmenando centinaia di ragazzi tra i banchi e gli altari. Una volta se la presero perfino con il cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, schiaffeggiandolo mentre ancora era rivestito dei paramenti sacri. Ecco i prelati complici dei facinorosi, destabilizzatori dell’ordine e cospiratori. Un segnale chiaro: nulla ferma el presidente, neanche il timor di Dio e dei suoi rappresentanti sulla terra. 

 

La repressione di Ortega, in questi anni, è stata un crescendo continuo: prima l’espulsione del nunzio, mons. Waldemar Stanislaw Sommertag, cui fu intimato di “lasciare immediatamente il paese”, poi la cacciata delle suore missionarie della Carità di Madre Teresa, ufficialmente espulse per problemi amministrativi ma anch’esse sospettate di aiutare i “terroristi”. Infine  la proibizione di manifestare pubblicamente la fede cristiana, il divieto delle processioni, la sostituzione di celebrazioni cattoliche in piazza con riti studiati dalla vicepresidenta e moglie del capo dello stato, la devota Rosario Murillo. Il tutto fra l’arresto di centinaia di oppositori, preti costretti al silenzio o anch’essi esiliati. 

 

E poi i vescovi. Il fronte antisandinista poteva contare su tre punte di diamante: mons. Silvio Báez, ausiliare di Managua, mons. Juan Abelardo Mata e mons. Rolando Álvarez. Il primo fu richiamato a Roma  – si disse perché minacciato di morte – con la promessa di nuovi incarichi o di un ritorno in patria (da tempo, invece, è a Miami). Il secondo fu repentinamente pensionato dalla Santa Sede quindici giorni dopo il compimento dei canonici settantacinque anni. Era il tentativo di mostrarsi disponibili al dialogo con Ortega, uno scambio non detto perfettamente inserito in una politica realista che ricorda la stagione della Ostpolitik casaroliana: la Chiesa cerca la pace e toglie dalla scena i presuli più “esaltati”, il governo riporta la situazione alla normalità. Il risultato è stato che mentre Roma congedava o rimuoveva i vescovi “problematici”, il tiranno metteva in galera il terzo, quel Rolando Álvarez che aveva un seguito popolare senza pari e che finiva sui giornali di tutto il mondo mentre, inginocchiato e con le mani dietro la testa, accoglieva i militari che facevano irruzione nell’arcivescovado di Matagalpa. Vescovo testardo, più volte ammonito a farla finita dalle autorità, senza successo. Ortega non poteva tollerarlo e come lui tanti occidentali ammaliati dal fascino dell’attempato rivoluzionario latinoamericano, che non di rado in riflessioni colte e assai chic bollarono i tre presuli come nient’altro che golpisti.  

 

Il Vaticano taceva mentre la Chiesa subiva la persecuzione. Il Papa regalava qualche battuta ai giornalisti a bordo aereo, con assicurazioni sul dialogo che continua e con analisi non facilmente comprensibili, come ad esempio la constatazione che “in America latina ce ne sono da una parte e dall’altra, situazioni del genere” (settembre 2022). Aggiungeva Francesco che “sul Nicaragua le notizie sono chiare tutte. C’è dialogo. Si è parlato con il governo, c’è dialogo. Questo non vuol dire che si approvi tutto quel che fa il governo o che si disapprovi tutto. No. C’è dialogo e c’è bisogno di risolvere dei problemi. In questo momento ci sono dei problemi. Io mi aspetto almeno che le suore di madre Teresa tornino. Queste donne sono brave rivoluzionarie, ma del Vangelo! Non fanno la guerra a nessuno. Anzi, tutti abbiamo bisogno di queste donne. Questo è un gesto che non si capisce… Ma speriamo che tornino. E che possa continuare il dialogo. Ma mai fermare il dialogo. Ci sono cose che non si capiscono. Mettere in frontiera un nunzio è una cosa grave diplomaticamente. Il nunzio è un bravo ragazzo che ora è stato nominato da un'altra parte. Queste cose sono difficili da capire e anche da ingoiare”. Insomma, profilo basso anche qui, prudenza. 

 

Ma se dialogo c’è stato, non se ne sono visti i risultati. Tant’è che pochi mesi dopo, a febbraio, il vescovo Álvarez veniva condannato a ventisei anni e quattro mesi di reclusione perché giudicato essere un “traditore della patria”. Solo ventiquattr’ore prima della sentenza, in diretta televisiva, Ortega definiva il presule un “terrorista”, “superbo”, “fanatico”, “pazzo”, “energumeno”. Sbattuto in gattabuia senza delicatezza o riguardo, ché “è un uomo comune e qualunque”. Il presidente era furibondo perché sapeva bene che Álvarez diventava un martire: lui gli aveva proposto di andarsene, imbarcato assieme a 222 connazionali – “traditori” anch’essi, ovviamente – con destinazione gli Stati Uniti. Ma il vescovo di Matagalpa aveva detto di no, preferendo il carcere, subendo l’enorme condanna. Il 12 febbraio, al termine dell’Angelus, il Papa si soffermava sul caso: “Le notizie che giungono dal Nicaragua mi hanno addolorato non poco e non posso qui non ricordare con preoccupazione il vescovo di Matagalpa, mons. Rolando Álvarez, a cui voglio tanto bene, condannato a 26 anni di carcere, e anche le persone che sono state deportate negli Stati Uniti. Prego per loro e per tutti quelli che soffrono in quella cara Nazione, e chiedo la vostra preghiera. Domandiamo inoltre al Signore, per l’intercessione dell’Immacolata Vergine Maria, di aprire i cuori dei responsabili politici e di tutti i cittadini alla sincera ricerca della pace, che nasce dalla verità, dalla giustizia, dalla libertà e dall’amore e si raggiunge attraverso l’esercizio paziente del dialogo. Preghiamo insieme la Madonna”. Si può immaginare la reazione del presidente, che per ripicca vietava le processioni della Via Crucis durante la Settimana santa. 
A luglio, a fari spenti, a Managua si era svolta una trattativa per far uscire dal carcere mons. Álvarez. Lo volevano un po’ tutti, la Santa Sede, la Chiesa locale e lo stesso governo: meglio che se ne andasse pure lui a Miami, a fare propaganda in casa yankee, senza creare problemi interni. Si era giunti a una bozza d’accordo: la libertà in cambio dell’esilio, sempre lo stesso schema. Ma il vescovo, debilitato e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza da mesi, ha detto di no. Il pastore non lascia il suo gregge ed è pronto a soffrire con esso. Anche in Nicaragua, nel Terzo millennio, c’è un Mindszenty. Davanti al rifiuto, Ortega non c’ha visto più: da qui la decisione di farla pagare pure ai gesuiti, gli amici del Papa. Prima con la chiusura della loro università, poi con la cacciata dalla loro residenza. In mezzo, il governo aveva anche provveduto a  bloccare il fondo creato dall’episcopato che eroga la pensione ai sacerdoti anziani. Pochi soldi che venivano usati per il cibo e i medicinali. 

 

Stavolta, però, la prudenza ha lasciato campo a un sonoro j’accuse. E’ la Provincia dell’America centrale della Compagnia di Gesù a diramare un comunicato durissimo nei toni, immediatamente ripreso dai media vaticani che ne hanno dato ampia risonanza. La Compagnia “condanna questa nuova aggressione contro i gesuiti del Nicaragua. La considera inquadrata in un contesto nazionale di repressione sistematica qualificata come ‘crimini contro l’umanità’ dal gruppo di esperti sui diritti umani sul Nicaragua composto dalle Nazioni Unite. Conferma che tutto questo è diretto alla piena istituzione di un regime totalitario. Ritiene il presidente e l’attuale vicepresidente del Nicaragua responsabili di condividere questi fatti e di impedire che esistano condizioni di indipendenza e neutralità da parte della magistratura”. La Provincia centroamericana dei gesuiti chiede “alla coppia presidenziale” di “cessare la repressione, di accettare la ricerca di una soluzione razionale in cui prevalga la verità, la giustizia, il dialogo, il rispetto dei diritti umani, lo stato di diritto. Di rispettare la libertà e la totale integrità dei gesuiti e delle persone che collaborano con loro”. Infine, si esprime la solidarietà al popolo che soffre: “La Provincia dell’America centrale si unisce alle migliaia di vittime nicaraguensi che stanno aspettando che venga fatta loro giustizia e riparato il danno che l’attuale governo sta causando”. Forse, anche sul fronte del Nicaragua è venuto il momento di lasciare da parte il diplomaticamente corretto.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.