Papa Francesco durante il suo viaggio in Bolivia (foto LaPresse)

Papa Francesco e il Sinodo della rottura

Matteo Matzuzzi

“Ci sentiamo chiamati a essere una chiesa che difende i diritti umani”, dice il cardinale Hummes. Ecco l’agenda dell’assemblea di ottobre

Roma. E’ importante la lunga intervista che il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo e già prefetto della congregazione per il Clero, ha rilasciato ieri alla Civiltà Cattolica. Tredici pagine sul Sinodo del prossimo ottobre dedicato all’Amazzonia ma che in realtà dicono molto di più su quel che sarà la chiesa domani. Hummes non è un cardinale qualunque, era il vicino di sedia di Jorge Mario Bergoglio in Conclave, è lui che gli ha suggerito di prendere il nome di Francesco, è lui che il Papa ascolta per questioni non di secondo livello sul destino della chiesa universale.

 

E Hummes dice quel che con modi più bruschi e impetuosi avevano affermato alcuni vescovi tedeschi – ne abbiamo dato conto sul Foglio di venerdì scorso – e cioè che dopo il Sinodo niente sarà come prima e che nella chiesa ci sarà una rottura. Il cardinale brasiliano evita di dirlo esplicitamente, dopotutto ha lavorato in curia e conosce bene che i toni soft spesso sono più utili per veicolare certi messaggi rispetto a ultimatum urlati con tanto di fanfare mediatiche di accompagnamento. Hummes spiega che la rotta per la chiesa di domani è quella indicata dalla chiesa dell’America latina, che “può apportare nuove luci alla chiesa europea e del mondo”. Ancora, “se parliamo fra noi e riusciamo a trovare nuovi cammini per la chiesa in Amazzonia, ciò andrà a beneficio di tutta la chiesa”. Il cardinale parla chiaro – è un’indubbia nota di merito – e spiega che “oggi si parla molto dell’unità della chiesa” e che questa è “fondamentale, importantissima. Però – aggiunge – questa deve intendersi come unità che accoglie la diversità, secondo il modello della Santissima Trinità. Cioè è altrettanto necessario evidenziare che l’unità non può mai distruggere la diversità. Il Sinodo, in concreto, accentua la diversità all’interno di quella grande unità”.

 

Sembra di essere tornati indietro di quattro, cinque anni, quando iniziava a formarsi il vortice novatore che avrebbe accompagnato il doppio appuntamento assembleare sulla famiglia. “Il Sinodo – spiega Hummes – serve per individuare nuovi cammini quando se ne avverte la necessità” e “abbiamo un grande bisogno di nuovi cammini, di non temere la novità, di non ostacolarla, di non fare resistenza. Dobbiamo evitare di portarci appresso ciò che è vecchio, come se fosse più importante di ciò che è nuovo”. Ancora, “non andremo certo al Sinodo per ripetere quello che è già stato detto, per quanto importante, bello e teologicamente significativo. Non c’è bisogno di un Sinodo per dire il già detto”. Esattamente quel che si diceva prima dell’appuntamento che poi ha portato, con drammatica conta all’ultimo voto, alla concessione della comunione ai divorziati risposati.

 

Il cardinale Cláudio Hummes, che il Papa ha scelto la scorsa settimana come relatore generale del Sinodo, ha anche aggiunto che “l’evangelizzazione dei popoli indigeni deve mirare a suscitare una chiesa indigena per le comunità indigene: nella misura in cui accolgono Gesù Cristo, esse devono poter esprimere quella loro fede tramite la loro cultura, identità, storia e spiritualità”. Quel che si deve fare è “generare una chiesa dal volto indigeno”.

 

Il porporato brasiliano è tra i più ferventi sostenitori dei viri probati, uomini sposati ordinati per supplire alla carenza di clero in determinate zone del pianeta, dove l’amministrazione dei sacramenti spesso non può essere assicurata. Padre Spadaro non cita la questione, ma ci gira attorno quando domanda a Hummes “quale tipo di ministero è necessario per questa realtà”. Il cardinale coglie il senso della questione e dice che “si attribuisce troppa importanza e priorità al profilo del ministero ordinato, anteponendolo alla comunità che deve riceverlo. Dev’essere il contrario: la comunità non è per il suo ministro, ma è il ministro per la sua comunità. Egli deve essere adeguato ai bisogni della comunità” e “questo bisogno della comunità, forse, dovrà spingerci a pensare a ministeri differenziati a partire dal fatto che una certa comunità, in un posto specifico, ha bisogno di una presenza adeguata. Non mettiamoci a difendere una sorta di figura storica a cui un ministro deve attenersi, senza possibili variazioni, in modo che le comunità debbano accettarlo e tenerselo perché è così che noi glielo inviamo”. Anche i ministeri “vanno pensati a partire dalla comunità: dalla sua cultura, dalla sua storia e dalle sue necessità. L’apertura significa questo”. In concreto, spiega, “ci sentiamo chiamati a essere una chiesa che difende i diritti umani, che difende i diritti indigeni, quelli dei ribeirinhos, le popolazioni rivierasche, e di altri. Una chiesa indigenista è così”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.