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Leggere Sciascia per capire il caso Moro

Massimo Bordin

L'Affaire Moro scritto nel 1978 contiene l'essenziale di una storia senza soluzioni 

Ho riletto, dopo diversi anni, “L’affaire Moro”, per poi parlarne in un convegno della fondazione Sciascia a Racalmuto. Leonardo Sciascia scrisse quel libro a pochi mesi dagli eventi e il testo produsse scalpore. Oggi, passati quarant’anni e riempitesi mensole di paccottiglia complottista sull’argomento, la lettura di quel libro – che nelle sue ultime edizioni contiene in appendice anche la relazione di minoranza che Sciascia, da deputato radicale, firmò al termine della prima commissione parlamentare d’inchiesta – è una esperienza sorprendente. In quelle poco più di cento pagine c’è già tutto l’essenziale. Gli elementi più controversi sono messi in fila fornendo a essi, fin dove è possibile, una spiegazione plausibile.

 

Si scopre così, col procedere affilato del ragionamento, che il margine di incertezza che comunque rimane non è poi così importante. Di più, Sciascia già allora fu capace di prevedere quel che sarebbe successo, la confusione che si sarebbe creata a partire da quello che chiama “pregiudizio autodenigratorio” che sostiene la tesi della eterodirezione dall’estero delle Br. Nel libro Sciascia per confutarlo fa ricorso a una forma amara di ironia: “Le Br sono italiane ma funzionano perfettamente”. Eppure non si tratta di una analisi minimizzatrice, anzi le conclusioni sullo stato del paese sono più inquietanti delle più apocalittiche fra le tesi complottiste. Sciascia incastra, come tanto bene sapeva fare, le tecniche del giallo con quelle del pamphlet illuminista, sapendo bene, come scrisse altrove, che il giallo più bello scritto da un italiano resta il “Pasticciaccio” di Gadda, anche perché non ha una soluzione.