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Il teatro (e la tragedia) del processo sulla strage di via D'Amelio

Massimo Bordin

Sarebbe stato molto semplice per Nino Di Matteo evitare l’ennesima puntata dell’opera dei pupi. E invece è andata diversamente

Sarebbe stato tutto semplice, relativamente parlando, ma la semplicità non si addice alla Sicilia. Sarebbe bastato che il dottore Di Matteo rispondesse ai proclami, via Fatto quotidiano, di Salvatore Borsellino: “Mi dispiace che la famiglia del giudice ucciso voglia anche da me chiarimenti sul depistaggio nel processo per la strage di via D’Amelio in cui fui pubblico ministero. Sul mio ruolo in quella storia ho già dato pubblicamente la mia spiegazione. Non ho comunque nessuna difficoltà a ripeterla alla prima commissione del Csm. Tanto meno ho bisogno di paladini che parlano in mio nome”. Bastava questo per evitare almeno l’ennesima puntata dell’opera dei pupi, fra “menti raffinatissime”, “parenti delle vittime”, “pm in trincea”, “negazionisti”, col necessario contorno di avvocati e avvocate, commissioni antimafia, regionali visto che quella nazionale ancora non l’hanno rifatta, giornalisti lancia in resta e sventolatori di agende.

 

Invece no.

 

Il teatro, la “tragedia”, intesa come tale ma anche nel senso che solo i palermitani le danno, ripartirà, ineluttabilmente, e non servirà a niente di buono. Per di più la richiesta della seduta pubblica per la commissione di un consiglio che scade fra meno di due settimane ricorda al cronista anziano una conferenza stampa degli anni Novanta. Era il 1996 e Vito Ciancimino annunciò importanti rivelazioni e chiese di essere sentito dalla commissione antimafia. “Ma voglio la diretta televisiva”, aggiunse. Non se ne fece nulla. A scanso di equivoci, Radio radicale allora come oggi è pronta almeno a quella radiofonica.