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Crisi ucraina, Califfato e quegli investitori in cerca di scuse

Giorgio Arfaras

I mercati avrebbero in realtà poco da temere dalle crisi geopolitiche in corso. Ma cedere ai timori può convenire.

Non solo le economie stanno rallentando, ma si hanno anche delle tensioni militari di un certo peso. Nonostante questo, i mercati finanziari sono rimasti stabili: nell’ultimo mese, il mercato delle azioni (misurato dall’indice mondiale) è leggermente sceso, e quello delle obbligazioni (misurato sempre dall’indice mondiale) è leggermente salito. Per scavare nella vicenda possiamo distinguere quanto è “interno” ai mercati finanziari e quanto è “esterno”.

 

Partiamo dalle pressioni “esterne”. Le tensioni militari hanno peso se danno origine a un evento economico negativo. Per esempio, un prezzo del petrolio maggiore per le tensioni in medio oriente, oppure una forte caduta della domanda russa di beni esteri e una forte riduzione dell’offerta di materie prime sempre da parte russa. Nel primo caso, l’evento negativo si manifesta attraverso una riduzione dell’offerta di petrolio non bilanciata dall’uso delle riserve strategiche e dalla maggior produzione saudita. (L’Arabia Saudita è, infatti, lo “swing producer” in grado di stabilizzare il prezzo del petrolio incrementandone o riducendone l’offerta). Finora l’evento negativo non si è prodotto. Tanto che, nonostante le tensioni in medio oriente, il prezzo del petrolio è rimasto fra lo stabile e il leggermente flettente.

 

Nel secondo caso, la compressione della domanda di beni esteri da parte russa deve essere significativa. A livello aggregato la domanda russa di beni europei è però modesta. Meglio, essa è significativa in alcuni comparti, ma nel complesso è modesta, perché l’economia russa è pari a meno di un settimo di quella dell’Unione europea. Dal lato dell’offerta di beni russi, è difficile che vengano ridotte le esportazioni di gas, perché è grazie ai ricavi della vendita di materie prime che i russi pagano le proprie importazioni. Si ha così una spiegazione del perché, nonostante la crisi in medio oriente e nell’Europa orientale, nulla di significativo sia finora accaduto nei mercati finanziari.

 

Passiamo allora alle dinamiche “interne”. I mercati finanziari sono da qualche tempo “anomali”. Solitamente, quando i prezzi delle azioni salgono, i prezzi delle obbligazioni scendono (la cedola è fissa, perciò, per avere un rendimento maggiore, i prezzi debbono scendere), e viceversa. Le azioni salgono perché si ha l’economia in ripresa (i fatturati salgono, salgono i margini operativi lordi e, alla fine, i profitti). Le obbligazioni, invece, scendono, perché si ha ripresa (la Banca centrale alza i tassi per raffreddare l’economia. I maggiori tassi si “scaricano” sulle diverse scadenze delle obbligazioni, i cui prezzi scendono). Vale il contrario, ossia senza ripresa le azioni scendono o si indeboliscono, mentre le obbligazioni salgono, perché la Banca centrale taglia i tassi di interesse.

 

Negli Stati Uniti si ha ripresa, ma i prezzi delle obbligazioni non scendono, anzi salgono. All’inizio del 2014 i rendimenti a dieci anni erano intorno al 3 per cento, a un certo punto del 2013 erano al 4 per cento, ora sono intorno al 2,5. In Europa si ha stagnazione, ma i prezzi delle azioni sono saliti dalla metà del 2012 – quando il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, esternò il “whatever it takes” – fino a quest’anno. Vere le relazioni storiche, negli Stati Uniti dovremmo avere il prezzo delle obbligazioni in discesa, mentre in Europa dovremmo avere un mercato delle azioni in difficoltà, ma così non è.

 

A ciò si aggiunga l’anomalia dei rendimenti. E’ possibile che l’Europa sia in stagnazione, ma i rendimenti sono inferiori a quanto ci si potrebbe aspettare. Un rendimento intorno all’1 per cento sui titoli di stato decennali tedeschi, infatti, come si giustifica? Se l’inflazione si muove verso il 2 per cento – l’obiettivo della Banca centrale –, allora ogni anno chi detiene i titoli del Tesoro germanico perde l’1 per cento, ossia perde il 10 per cento in dieci anni. Si potrebbe però argomentare che chi li ha comprati li vende prima che la situazione si stabilizzi. Ma per venderli deve accettare di perdere.

 

Giustificazioni per investitori sbadati
Insomma le obbligazioni, con i loro rendimenti bassi e qualche volta di fatto nulli, sia negli Stati Uniti sia, soprattutto, in Europa, scontano un mondo che una volta era definito “giapponese”: bassa crescita, bassa inflazione, se non deflazione. Le azioni, invece, scontano un mondo in ripresa. (Il moltiplicatore degli utili – il price to earning ratio – indica quanto ci si aspetta che gli utili possano crescere. Se il moltiplicatore è alto, allora ci si aspetta che gli utili crescano molto, e viceversa). Le azioni statunitensi soprattutto, e quelle europee in misura minore, hanno dei moltiplicatori elevati. Visto che si contraddicono – uno non “vede” la ripresa, l’altro sì – quale dei due mercati ha ragione e quale torto?

 

La tesi, in breve, è questa: le crisi in medio oriente e in Ucraina hanno avuto finora un impatto molto modesto sui mercati finanziari, i quali paiono compatti, mentre – a ben guardare – si contraddicono. Dal che uno può giungere a una conclusione perfida. Le crisi politiche e militari in corso possono diventare una scusa per gli investitori che sono nel mercato “sbagliato”: chi ha le azioni le vende affermando che la crisi può “sfuggire di mano”, e chi ha le obbligazioni le vende affermando che in realtà la crisi non è così grave da giustificare un prezzo anomalo per l'attività finanziaria “di rifugio”.

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