Il Dragone sullo sfondo

Perché la Cina entra nella partita globale dei debiti sovrani

Domenico Lombardi

Il crac ripetuto in Argentina, quello rischiato in Ucraina, e l’insoddisfazione asiatica per le regole sfuggenti

Al rientro dalla pausa estiva, la prossima settimana il consiglio di amministrazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) troverà il dossier ucraino ad attenderlo. La missione tecnica che sta redigendo il rapporto ha lasciato Kiev il mese scorso rivedendo al ribasso l’andamento delle principali variabili macroeconomiche: il prodotto interno lordo (pil) si contrae del 6,5 per cento (1,5 punti più giù rispetto alle previsioni nel documento programmatico di aprile), il deficit pubblico sale al 10,1 per cento (8,5 nel medesimo documento) e le riserve valutarie si vanno assottigliando in seguito agli interventi sul mercato del cambio per contenere le pressioni ribassiste sulla valuta.

 

Eppure l’aspetto che troverà meno enfasi nel rapporto è l’impatto del conflitto sull’indebitamento del vacillante stato ucraino e l’interazione della dinamica esplosiva di tale debito con una clausola contrattuale del tutto atipica presente nell’emissione obbligazionaria con cui Mosca sottoscrisse un prestito a Kiev da 3 miliardi di dollari lo scorso dicembre.

 

Ma procediamo con ordine. Nel documento programmatico approvato dal Fmi in aprile si prevede che il rapporto debito pubblico/pil ucraino aumenti dal 45 per cento previsto per l’anno in corso al 60 per cento nel 2018. Tuttavia, uno studio di Oxford Economics appena pubblicato prevede che il rapporto in parola sia destinato a raddoppiare entro il 2018. Tale dinamica riflette da un lato l’impatto sui bilanci delle banche della severa crisi economica e la conseguente necessità di ricapitalizzarle; dall’altro, gli effetti disastrosi del conflitto nella parte orientale del paese. Quest’ultimo aspetto, in particolare, sta spingendo le autorità ucraine a rinegoziare con l’istituzione multilaterale un incremento nelle risorse messe a disposizione nell’aprile scorso, pari a 17 miliardi di dollari, una cifra già ragguardevole date la incertezze geopolitiche associate al programma.

 

E’ prassi che il Fmi spinga per una ristrutturazione o, almeno, un riscadenzamento del debito sovrano così da evitare che le sue scarse risorse vadano a finanziare pagamenti agli investitori privati piuttosto che all’economia sotto stress.

 

Riscadenzamento o meno, l’istituzione di Washington si troverà a negoziare una partita geopolitica con uno dei suoi principali azionisti, la Russia, che sta per assumere aspetti del tutto inediti.

 

Secondo lo studio di Oxford Economics, l’Ucraina potrebbe superare la fatidica soglia del 60 per cento nel rapporto debito pubblico/pil il prossimo anno, prima della scadenza del menzionato prestito obbligazionario russo. Il che consentirebbe a Mosca di richiedere – secondo una clausola del tutto particolare che non trova riscontro in nessun’altra emissione sovrana – l’immediato rimborso dell’intero prestito.  Come nota Mitu Gulati, uno dei maggiori esperti di questioni legali in materia, tutto quello che Mosca dovrebbe fare è vendere le obbligazioni a qualche intermediario compiacente così da evitare l’imbarazzo diplomatico che ne seguirebbe.

 

La richiesta di rimborso scatenerebbe richieste simili da parte di altri creditori grazie alle cosiddette clausole “cross default” generalmente presenti nelle emissioni obbligazionarie, mettendo in ginocchio, finanziariamente oltre che militarmente, le autorità di Kiev. Nel migliore dei casi, la prospettiva appena descritta offre a Mosca un’ulteriore arma di pressione, di natura finanziaria, sulla comunità internazionale oltre che sulle autorità ucraine.

 

Di fronte a tali potenziali sviluppi, Christine Lagarde, il direttore generale del Fmi, potrà contare su un insperato alleato, la Cina che, in qualità di creditore internazionale di sempre maggior rilievo, guarda con crescente preoccupazione al deficit di governance del sistema finanziario internazionale.

 

Da Pechino stanno seguendo con interesse il default argentino imposto da una sentenza di una corte americana che ha messo in discussione un precedente accordo di ristrutturazione del debito che il governo argentino aveva raggiunto con il 93 per cento dei creditori, accettando, invece, le istanze formulate dal recalcitrante 7 per cento. Per le autorità cinesi, la decisione della corte americana viola il principio di sovranità. Allo stesso tempo, gli analisti cinesi hanno stigmatizzato la decisione europea, presa nel contesto della ristrutturazione del debito greco nel 2012, di escludere dalla ristrutturazione le Banche centrali dell’Eurosistema, in aperta violazione con il principio di uniformità di trattamento fra i creditori.

 

L’attenzione con cui Pechino segue queste vicende si intreccia con la crescente consapevolezza del suo ruolo di creditore sistemico e della sua potenziale vulnerabilità determinata dalle falle di un sistema rispetto al quale sta assumendo un atteggiamento sempre più dialettico. Per esempio, la Cina ha tradizionalmente criticato l’uso della condizionalità alla quale le istituzioni finanziarie internazionali subordinano le proprie operazioni di prestito, in linea con gli altri paesi in via di sviluppo.

 

Tuttavia, nel 2012, il governatore della Banca centrale ha invece affermato in chiave positiva l’uso della medesima condizionalità da parte delle istituzioni di Bretton Woods, poiché salvaguarda gli investimenti dei paesi creditori.

 

Allo stesso modo, le autorità cinesi stanno definendo una propria posizione istituzionale sulla governance delle crisi debitorie sovrane. Consapevoli della frammentazione dell’attuale impianto, Pechino è a favore di un sistema che regoli in modo equo e uniforme le crisi sovrane e ponga i debitori sovrani al riparo delle ingerenze di creditori bilaterali, come gli Stati Uniti nel caso dell’Argentina o la Russia nel caso dell’Ucraina. Tanto vale puntare su un ruolo rafforzato del Fmi, nel quale la Cina diventerà il terzo più grande azionista appena il pacchetto di riforma della governance verrà approvato anche dal Congresso degli Stati Uniti. Naturalmente, in attesa che il renminbi diventi una valuta internazionale in cui gli investitori cinesi potranno effettuare i loro investimenti, magari nell’ambito di giurisdizioni amiche.

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