Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

Una fogliata di libri

Quando non esistono vita o morte, ma solo il dolore

Giulia Ciarapica

“Chillicothe e Breathed, due cittadine che per Tiffany McDaniel sono il fulcro da cui nasce il Male”

In Ohio accadono molte cose, forse troppe, soprattutto fra Chillicothe e Breathed, due cittadine che per Tiffany McDaniel rappresentano il fulcro da cui nasce il Male, il punto esatto in cui mette radici per proliferare. Sono i riferimenti della sua letteratura, ed è in questo pezzo di mondo, in quest’America disgregata e piena di rabbia, non artefatta né luminosa, che nascono personaggi impossibili da replicare: “La nostra prima colpa è stata credere che non saremmo mai morte. La seconda, credere che fossimo vive”.

 
Nelle opere di questa giovane autrice americana la questione della vita e della morte, così come la conosciamo, risulta assolutamente superflua. Non esistono Vita o Morte, esiste solo il Dolore che domina e sovrasta qualunque cosa come un dio minore, e che accompagna l’uomo da una condizione all’altra. Un dolore puro, un diamante non lavorato nelle mani di persone fragili ma intere, che non perdono mai di vista la loro sofferenza e non la barattano con nient’altro: soffrono, sanno di soffrire e vivono in quella condizione senza raccontarsi bugie. E’ così e basta, sembrano dire a chi li legge. Un’accettazione del dolore sì, ma disperata e tutt’altro che muta, graffiante nella sua inesorabilità. Non c’è salvezza in McDaniel ma c’è qualcosa di ancora più potente: la Poesia. Tutti i suoi personaggi, dal padre di Betty ne “Il caos da cui veniamo” a Daffy in “Sul lato selvaggio”, sono esseri umani sorretti unicamente dalla poesia, anzi, sono loro stessi atti poetici scaraventati nella mondezza del mondo, nonostante rappresentino la feccia della società, gli emarginati, i diversi. Che il diverso sia l’Indiano d’America, o il ragazzino di colore che ne “L’estate che sciolse ogni cosa” si chiama Sal e si presenta a Breathed come “il diavolo”, o che siano le tossicodipendenti protagoniste di “Sul lato selvaggio”, non fa differenza. Tutto ciò che vive al margine e che si spinge fin sull’orlo del precipizio, talvolta sacrificando la propria vita in nome della vita stessa, è quel che interessa McDaniel.


Le sue storie si rincorrono e alla fine si acchiappano sempre, perché anche se non sono collegate dalla trama o dagli stessi personaggi, hanno comunque tanti strumenti che le rende solide e vicine, simili: a partire dal fuoco che brucia e scioglie tutto (un po’ assolve e libera, un po’ uccide e basta), dal serpente che torna ciclicamente e che stritola chiunque senza mai avvicinarsi troppo, arrivando infine all’elemento religioso e poi a quello onirico, cifra immancabile di una scrittura indimenticabile. Dio c’è sempre, accompagna Tiffany e le sue narrazioni, ma è un dio gigante, inafferrabile, che vede qualunque cosa senza salvare mai nessuno. Cerca di spiegarcelo, l’autrice, e noi con lei pensiamo a un certo punto di averlo capito, ma poi scopriamo che l’unica lezione è proprio quella del dolore. Dio non ci dice come salvarci, forse non lo sa nemmeno lui, ma ci offre sempre la possibilità di accettare la sofferenza e diventarne parte danzante. Non fuori dal Male, ma insieme al Dolore, mentre cantiamo la nostra ultima canzone.

“Mi sento una creatura finita, e invece sono infinita”, dice Arc nelle ultime pagine di “Sul lato selvaggio”, ed è proprio così: McDaniel, nel suo giovanissimo vissuto di donna e autrice, ha scoperto che l’infinito risiede nel dolore, e che anche la morte si può superare con la gioia della sofferenza. Questa è la sua poesia.

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