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una fogliata di libri

La piccola miniera d'oro di Mark Twain sulle regole della buona scrittura

Marco Archetti

Nel volumetto “Come raccontare una storia e l’arte di mentire” (Mattioli 1885) le diciotto regole che regolano la letteratura, da trascrivere e tenersi nel portafoglio

"Il Cacciatore di cervi è solo un delirium tremens letterario".


Siamo uomini e donne di mondo, sappiamo come stanno le cose e sapiamo che è inutile, ormai, pretendere questa nettezza di giudizio marktwainiana. Nettezza che crepita nel volumetto “Come raccontare una storia e l’arte di mentire” (Mattioli 1885) – nettezza, va chiarito, preceduta da venti pagine di disamina che chiariscono il punto: non si tratta di teppismo, ma di accuratissima analisi. 


Il fatto è che arrancando tra le mille recensioni euforiche è inevitabile provare sgomento registrando l’impossibilità materiale di brucare anche solo l’un per cento dei numerosi capolavori istantanei che spuntano ogni giorno nei pratoni delle patrie lettere. E’ di un mesetto e mezzo fa la notizia che, in Italia, un libro su tre non vende nemmeno una copia, ma sarebbe interessante un altro tipo di calcolo, certi come siamo che quel libro su tre che non vende nulla possa vantare almeno tre recensioni sovreccitate, non certo motivate dalla sua qualità tracimante.


Il librino di Twain è una miniera d’oro, piccola ma capacissima. E serve da ripasso. Contiene, nell’ordine: una difesa d’ufficio dell’arte di mentire; un decalogo di ben diciotto punti (in verità sono undici più sette, ma sempre decalogo è) sulle regole base della buona scrittura; una recensione di efferata precisione a un romanzo di Fenimore Cooper (vedi la frase sopra) e che andrebbe imposta in lettura a chiunque si pensi scrittore (di quel libro su tre, o degli altri due), per mostrare la meticolosa severità che ogni autore dovrebbe usare su di sé.


Da lettori, invece, si constata sempre più spesso un andazzo scuorante, giacché in un libro su tre – e solamente quando va bene – imperano il cedimento, la sciatteria e l’autoindulgenza. L’idea che il cattivo scrittore si fa del proprio lettore, del resto, non aiuta, trattandosi più che altro di una proiezione scaramantica, un’ombra cinese di una mente prigioniera di sé stessa. Funziona così: si scrive male e si conta sul fatto che esista un lettore che ce lo perdonerà, in nome di ciò che, al contrario, dovrebbe giustificarlo a rincorrerci con una mazza da cricket, cioè il messaggio.


A proposito di regole e decaloghi, Mark Twain condanna, de “Il cacciatore di cervi”, la puerilità delle trovate, l’occhio “mirabilmente impreciso” (“Cooper vede ogni cosa come se fosse al buio”, scrive) e la stupefacente implausibilità dei dialoghi. “Difficile credere che dei discorsi del genere siano usciti realmente dalla bocca di qualcuno”, scrive Twain. Non è finita. “Il suo orecchio”, infierisce rampognando e emettendo sentenza definitiva, “si accontenta di vocaboli approssimativi”. E ci informa che Cooper usa “verbale” al posto di “orale”; “precisione” al posto di “facilità”; “semplice” al posto di “primitivo”; “fatto” al posto di “condizione”.


Volata finale. “In base alle diciotto regole che regolano la letteratura (Cooper ne vìola diciotto) è necessario: 1) Che la storia segua un disegno preciso e approdi da qualche parte; 3) Che i protagonisti della storia siano vivi, esclusi i cadaveri, e che il lettore riesca sempre a distinguere gli uni dagli altri; 4) Che i personaggi di una storia manifestino un motivo sufficiente a giustificare la loro presenza nella medesima; 13) Che l’autore utilizzi la parola giusta e non una sua cugina di secondo grado.” Amen. 

  
Decalogo da trascrivere e tenersi nel portafoglio con la foto dei figli e l’assenso alla donazione di organi.
 

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