Soldati tedeschi marciano a Parigi, 1940 (Wikimedia Commons) 

uffa!

Emil Cioran, diviso fra l'amore per la Francia e l'ammirazione per i fascismi

Giampiero Mughini

Sui suoi trascorsi da simpatizzante per le dittature e i dittatori, compreso l'antisemitismo, lo scrittore disse di non avere una spiegazione. Noi amiamo il Cioran post anni Trenta, che "nasce" a Parigi. E amarlo, con quelle sue frasi sguainate alla velocità di un colpo di scimitarra, significa amarlo all’ebbrezza

Quando ho saputo della morte di Mario Andrea Rigoni (nato il 2 giugno 1948, è morto il 15 ottobre 2021) subito ho pensato di onorare il debito che noi italiani avevamo contratto con lui. L’essere stato Rigoni, professore emerito all’università di Padova, a fare entrare nelle nostre biblioteche e dunque nelle nostre anime i libri di E. M. Cioran editi in Francia. Risale al 1981 il primo dei dieci o dodici libri di Cioran che sono andato via via deponendo nel comparto della mia biblioteca dedicato alla cultura francese del Novecento. Lo “Squartamento” tradotto da Rigoni e pubblicato da Adelphi due anni dopo l’edizione Gallimard dal titolo “Écartèlement”. Nel delizioso epistolario intercorso per quasi vent’anni tra i due (nato in Transilvania nel 1911, Cioran è morto nel 1995), lo scrittore rumeno si lamentava che “Écartèlement” avesse avuto in Francia “un grande successo, ma un successo di cattiva lega” nel senso che di quel libro se ne erano occupate “persino le riviste di moda”, e dunque un successo da cui lui si sentiva “umiliato”.

Afflitto com’era da “mania epistolare”, le lettere di Cioran avevano né più né meno l’intensità dei suoi libri. Non una riga in quelle lettere dove lui si lasci sfuggire il disprezzo per chi si affida alle ideologie nello spiegare ogni particella dell’umano possibile, per chi si muove a testa bassa forte delle sue immutabili convinzioni originarie. A Mario Andrea Rigoni scrive così il 15 settembre 1980, poco dopo l’esplosione nella sala d’aspetto della stazione di Bologna: “Sono al corrente della situazione in Italia. La follia criminale di Bologna ci ha tutti sconvolti. Bisognerebbe estirpare tutte le ideologie e, prima di tutto, il bisogno di credere. Uno scettico non maneggia mai la dinamite…” (E. M. Cioran, “Mon cher ami”, il Notes magico, 2007). Figuratevi quanto Cioran avesse a cuore gli eroi del pensiero ideologicamente orientato, quelli che un giorno sì e l’altro pure scoprono una ricetta con cui migliorare il mondo, a cominciare dai “sartriani” che per un quarto di secolo hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Europa. In un’altra delle sue lettere a Rigoni gli dice che una rivista francese gli ha chiesto di scrivere qualcosa per loro, ma che lui diffida dell’“orientamento” di una rivista un cui scrittore prediletto era Simone de Beauvoir. Più “sartriana” di lei.

Eppure c’era stato un tempo della sua vita, quello in cui il suo cognome si pronunziava al modo della lingua rumena e non al modo della lingua francese, in cui Cioran aveva “creduto” con tutte le insidie del caso, arroventate da un’insonnia cronica che gli permetteva di dormire non più di due o tre ore a notte. Non avendo letto nessuno dei cinque libri da lui scritti in rumeno prima di trasferirsi a Parigi, non so dire esattamente quanto il Cioran degli anni Trenta debba alla sua ammirazione del particolare fascismo rumeno di Corneliu Zelea Codreanu, quanto a una sua breve ammirazione per Hitler, quanto alla sua convinzione dell’inanità della democrazia parlamentare e dell’insussistenza dell’idea di “progresso”. Del se stesso degli anni Trenta dirà più tardi che non riusciva a capire com’è che fosse stato tale, un antisemita ivi compreso. Dalla Romania era venuto via nel 1937 perché passava per un ammiratore di Codreanu, il “Capitano” della Guardia di Ferro che re Carol II fece assassinare il 30 novembre 1938, lui e i suoi compagni di prigionia strangolati uno a uno e poi gettati in una fossa comune.

Il Cioran che noi amiamo nasce a Parigi. Il suo primo libro in lingua francese è il “Précis de décomposition” del 1949, tradotto in italiano poco meno di cinquant’anni dopo. Vive in un sottotetto al settimo piano del numero 21 di rue d’Odéon, una straduzza al quartiere latino che consta di un’ininterrotta sequenza di librerie. Dispone di uno studiolo talmente esiguo da contenere solo una minima parte della sterminata biblioteca di cui aveva una conoscenza di prima mano. Buona parte dei libri che gli arrivavano e che aveva letto li ammonticchiava fuori dalla porta, pronti per essere donati a chi gli faceva visita. Oltre che in francese, leggeva in tedesco e in ungherese. Quanto all’italiano dei libri di Giacomo Leopardi che gli dava Rigoni (studioso d’eccellenza del poeta recanatese), Cioran diceva che lo intuiva, che gliene arrivava l’essenziale. Quanto all’italiano dello stesso Rigoni, diceva che in lui “lo scrittore” era sopravvissuto all’università.

Se ami Cioran, il suo radicalismo intellettuale senza compromessi, quelle sue frasi sguainate alla velocità di un colpo di scimitarra, allora lo ami all’ebbrezza. Più lo leggi e più ne senti il bisogno, è il suo “tono” che ti affascina. È sempre uguale a se stesso, ma non è mai monocorde. Alcuni anni dopo la sua morte è stato recuperato e pubblicato per la prima volta col titolo “De la France” un testo che lui aveva scritto a Parigi nel 1941, poco dopo avere visto sfilare lungo il Boulevard Saint-Michel le truppe tedesche che avevano schiantato i francesi in un paio di settimane. È un testo chiave, perché situato esattamente alla linea di confine tra l’ammiratore dei fascismi degli anni Trenta e l’uomo profondamente ancorato nella lingua e nella cultura francese e che non le cambierebbe per nessuna cosa al mondo. Agli occhi di Cioran era lampante la cocente disfatta di una democrazia che aveva impregnato di sé gli ultimi secoli della storia del mondo, la “mortale” crisi spirituale demografica militare di un popolo ormai lontanissimo da quando un Napoleone trentenne “aveva in mano un paese ancora capace di follia”. A quella crisi Cioran dedica pagine lancinanti, alla maniera di un innamorato che vuole darsi una ragione al fatto che la donna da lui amata non c’è più. Solo che quell’amore è troppo grande per venir meno. Se c’era una cosa su cui lo scettico Cioran non transigeva era la bellezza del suo sottotetto parigino.

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