Fiori lasciati sul luogo della strage di Bologna (Ansa) 

piccola posta

Il processo sulla strage di Bologna e il balbettio di Cossiga

Adriano Sofri

Qualcuno ha posato la sua valigia, ha guardato in faccia le persone intorno, si è compiaciuto che dopo poco sarebbero state straziate, e se n’è andato. Dopo più di quarant'anni, il tentativo di immaginare a cosa pensava

Il 2 agosto del 1980 era sabato. Quando sapemmo di Bologna eravamo a Roma, lontano, non abbastanza per non restarne intontiti. Non c’erano ancora notizie, solo un pensiero certo, che non usciva dalla testa. Qualcuno ha posato la sua valigia, ha guardato in faccia – ha “riconosciuto”, per così dire – le persone intorno, si è compiaciuto che fra poco sarebbero state straziate, e se n’è andato. Seguo come posso il processo, più di quarant’anni dopo. Mi dicevo quel giorno che uno così probabilmente non avrebbe avuto rimorsi, e comunque non era inevitabile, si poteva solo sperare che fosse martoriato dalla paura, dalla certezza che chiunque, solo vedendolo, dovesse sapere che cosa aveva fatto.

Nel pomeriggio, al nostro giornale, venne un uomo a portare dei soldi e offrire da bere. Nessuno lo conosceva. Era uno che non aveva resistito a starsene a casa da solo dopo aver saputo di Bologna. Marco, che era venuto a Roma un paio di giorni prima, raccontò che aveva chiesto alla signorina dei telefoni un’informazione sull’Itavia, e lei gli aveva risposto: “Ma perché vuole andare in aereo! Vada in treno che è più sicuro”. In televisione, domenica, Cossiga balbettava. Disse due volte “terribibilità”. Un artificiere, intervistato, bella faccia, disse: “Abbiamo trovato il taims”. R. era in barca, lo seppe solo il lunedì, al telefono scoppiò a piangere. Mercoledì, 6, a Bologna, nella cattedrale e poi nella piazza, al sole. In chiesa, il lato dei parenti, senza le salme: cadaveri disertori, come nel funerale ufficiale di Moro. 

Ho pensato più volte a Fleur Jaeggy nei mesi scorsi, sempre in momenti di perdite. Nell’agosto del 1980 leggevo i suoi libri, Il dito in bocca. Parlava di contagi. “Considerava tutte le manifestazioni come una forma di contagio. Dividevo i contagi in superiori e inferiori, raramente quelli pubblici si possono annoverare tra i superiori, forse la guerra. Lo sgombero degli uomini”. O Le statue d’acqua. “Qui prima abitava un bambino, diceva che desiderava vivere da annegato, e si mise a collezionare statue”. 

Partii per Parigi, con Nicola. Invidiavo il telegiornale francese, che non aveva proprio niente da dire. Solo verso il 12 agosto cominciarono, come d’abitudine, gli incendi nei boschi. 

A Ferragosto, alle Halles, un giovane, filippino o malese o di chissà dove, basso, tarchiato, con un giacchettone di raso elettrico e una pantera cucita sopra, e grossi zoccoli olandesi, un marittimo forse, cerca invano, con tenacia inespressiva, di salire una scala mobile in discesa. Diciamoglielo, dico. Ma no, si diverte, dice S. Invece non si diverte. Che idea deve farsi di questa città e di questo mondo un giovane che immagina che lo si spedisca per cunicoli ventosi fino a una scala che si muove verso il basso, da risalire come nella fatica di Sisifo?

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