(foto Ap)

Terrazzo

Di mall in peggio, finisce l'epoca dei centri commerciali

Michele Masneri

Sia in America che in Europa rappresentano oramai il passato. Rimangono ruderi e storie avventurose di architetti, da Minneapolis a Catanzaro

Ormai una città non è degna di questo nome se non ha il suo centro commerciale abbandonato. Da Brescia a Catanzaro, si parla  di “dead mall”, all’americana, per descrivere aree urbane o suburbane dove un tempo c’era un “mall”, appunto, e ora ne sopravvive il carapace vuoto. In America, dove questi avamposti sono nati, negli anni Cinquanta, pare decretata ufficialmente la loro fine. Negli anni Sessanta ce n’erano oltre 4.500, diventarono 25 mila negli Ottanta. Adesso ne sono rimasti 700. La catena Macy’s ha appena annunciato che chiuderà 150 grandi magazzini entro il 2026. Se nel 1985 questo tipo di locale  contava per il 14,5 per cento delle vendite totali americane, nel 2023 questa percentuale è scesa al 2,6 per cento secondo una ricerca di Global Data. A pesare sono l’ecommerce, l’impoverimento delle classi medie, e anche “l’esperienza di acquisto”, che qualunque cosa voglia dire significa che i consumatori puntano a comprare roba in maniera più sofisticata (o almeno percepita come tale). 


Il Novecento sembra essere stato insomma il secolo breve dei “mall”. Il primo nacque nel 1956 a Minneapolis. L’inventore del moderno ritrovo per lo shopping è stato Victor Gruen, vero nome Viktor David Grünbaum, austriaco, membro di quell’ondata di architetti europei (Richard Neutra, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius e altri) che “grazie” al nazismo, perseguitati o solo disoccupati fuggirono dall’Europa impestata e inventarono l’international style americano. Ebreo viennese, Gruen si stabilì a Los Angeles dove mise su la Gruen Associates. Figura leggendaria, una specie di Billie Wilder dell’architettura (altro ebreo austriaco che fece grande l’America) dettava tre o quattro lettere contemporaneamente  col suo accento da dottor Stranamore. Arrivò in piroscafo con in tasca otto dollari, zero inglese e una laurea in Architettura. Giunto in America  gli dissero: punta in alto, di lavapiatti europei ne abbiamo già troppi. Li prese in parola, andò a Princeton e si fece fare una lettera di presentazione da Einstein. Si stabilì a New York e cominciò a disegnare negozi. Il suo capolavoro è appunto il primo centro commerciale d’America, chiamato “Southdale” a Edina, vicino a Minneapolis.

 

Ancora oggi in funzione, fu inaugurato l’8 ottobre 1956: comprendeva 72 negozi, costò venti milioni di dollari, e cambiò per sempre l’estetica delle città, introducendo questi oggetti architettonici nuovissimi. Prima c’erano al massimo  solo  agglomerati di negozi collegati tra loro che avevano vetrine anche sulla strada, mentre lui li trasforma:  muraglioni fuori, la meraviglia dentro, così uno è invogliato a entrare nella cittadella. Al centro della quale c’è la piazza coperta – altra innovazione –  riscaldata d’inverno e climatizzata d’estate. Poi, l’estensione si raddoppia su due piani, collegati da scale mobili, e poi balconate, terrazzi e al centro un giardino. A Southdale c’erano sculture e perfino un’uccelliera gigante. Tutti i giornali d’America ne parlarono estasiati. Life scrisse di come era sensazionale che “arte, uccelli, e dieci acri di negozi stiano sotto lo stesso tetto del Minnesota”. Il più grande architetto d’America, Frank Lloyd Wright, andò in avanscoperta. “Chi mai vorrebbe sedersi in questo luogo desolato, che sembra d’essere in Egitto?”, disse. “Southdale ha tutti i difetti di un villaggio e nessuno dei suoi pregi”.  Gruen a fine anni Sessanta  abbandonò gli Stati Uniti e tornò a vivere in Europa. Disconobbe l’invenzione del mall, disse che i suoi imitatori l’avevano frainteso, che i centri commerciali avevano distrutto le città.   
 

Ma intanto nello studio Gruen che continuava a prosperare capitò a un certo punto un promettente architetto, un altro immigrato, un canadese di nome Ephraim Owen Goldberg che anche lui in seguito cambierà nome, in Frank Gehry. Spiantatissimo, figlio di un ferramenta, costretto a fare il rider, finisce a  Santa Monica, dove si costruirà una casa poi celebre con l’alluminio ondulato (ma all’inizio denunciato dai vicini, proprio per la stramberia dell’abitazione oggi monumento internazionale), e  nella cittadina californiana progetta uno dei suoi primi lavori, nel ’79, il centro commerciale Santa Monica Place,  che comincia a proiettarlo tra gli architetti più interessanti d’America. Contraddistinto da una enorme scritta lunga 100 metri e alta otto, poi è stato completamente rifatto, e oggi è un “mall” come gli altri, con un bell’Uniqlo dentro. Intanto negli anni Settanta erano nate le “food court”: nei centri commerciali si mangiava pure. 


Gli anni Ottanta come si immagina sono una cavalcata.  Nel 1992, sempre a Minneapolis, aprì Mall of America: visitato da 43 milioni di persone l’anno, con un fatturato di quasi 1 miliardo di dollari diviso per 500 negozi, un acquario, cappella per sposalizi, cinema. Da lì in poi, la decadenza. Oggi i “dead mall” sono scheletri abbandonati: per le loro caratteristiche architettoniche, l’enormità, il gigantismo, sono impossibili da riciclare.  Alcuni con crudele ironia sono diventati centri di smistamento merci Amazon. 


Rimangono però le storie di alcuni dei protagonisti. Un altro era il defunto marito di Gabriella di Savoia, Robert de Balkany. Anche lui immigrato, e naturalizzato in Francia, anche lui si era preso un nome d’arte, col suo “de” minuscolo, era nato infatti Zellinger in Romania, dove il padre aveva fondato un piccolo impero immobiliare, e sbarcando in Francia si era creato un cognome nuovo di zecca (è inserito nella perfida “Encyclopédie de la fausse noblesse”, l’enciclopedia della nobiltà fasulla), e con eccesso di zelo nel 1969 aveva sposato la principessa d’Italia.


Aveva però studiato architettura a Yale per poi seguire le orme del padre. E’ a lui (figlio) che si deve la trasformazione urbanistica dell’Ile de France e la creazione del più grande condominio d’Europa (7.500 appartamenti!). Ed è sempre a lui che si deve l’importazione in Europa del modello americano degli shopping center. Ne ha fondati circa una quarantina tra cui Parly 2, a Parigi, uno dei suoi massimi successi.  E’ morto nel 2015, e una delle sue ultime operazioni era stata EuRoma2, il colossale  centro commerciale dell’Eur di Roma, che invece continua ad andare a gonfie vele. Forse perché l’esperienza di acquisto, con l’esotismo anche qui vagamente egizia degli ottoni e degli obelischi, non è replicabile. Tantomeno online.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).