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Terrazzo

Questo museo è giurassico. A Los Angeles, il fasullo che sembra vero (e viceversa) 

Giulio Silvano

Realtà, artificio, un museo pieno di cose fasulle ma che sembrano vere. Quasi una frecciatina all’idea stessa di musealizzazione, di scienza come faro, di didascalia come verità

Nemmeno in Minecraft, nemmeno in un rendering la perfezione geometrica dei bossi di Villa Getty, frutto di un esercito di giardinieri asperger, tra le copie delle copie romane e muri che sembrano una parodia di Villa Giulia. O le fontane e le statue nel garden dell’altro Getty – perché un vanity project multimiliardario non basta, ne servono almeno due: diversificazione del portfolio, su un colle le statue etrusche, sull’altro i Rembrandt.

E poi il LACMA con i lampioni di Burden instagrammabilissimi tutti ordinati, e l’Hammer con le sue vetratone un po’ studio di yoga, e le passeggiate tra le bianchissime gallerie di Rodeo Drive dove la gente chiama ancora Basquiat per nome. E i Frank Gehry e i Richard Meier, tutto così riflettente. Stanchi dei perfettissimi musei californiani “sotto la luce losangelena fulgida come in Grecia” (cit. Arbasino) serve una pausa nell’altra direzione, verso quell’altro estremo americano che è la soffocante enciclopedizzazione ironica in stanze senza finestre, con l’odore di moquette e di proiettori accesi e carta da parati un po’ slabbrata, in quel mondo postmoderno (letterario non architettonico) che è il Museum of Jurassic Technology. Realtà, artificio, un museo pieno di cose fasulle ma che sembrano vere e (forse) viceversa. A un certo punto, display dopo display, smettiamo di chiedercelo. Consigliatoci da Michael Cunningham e da Jonatham Lethem e da altri creativi che vivono o hanno vissuto a LA. Un multiverso dove fuggire dalla perfezione dei supermercati Erewhon che sembrano showroom di Montenapoleone e i marciapiedi inutilizzati coi robottini Coco che rimpiazzano i rider. “You are gonna love it”, ti dicono. Perché è diverso. Un mood che si trova forse solo in qualche flea market. Massimo hipsterismo delle origini, come note a piè di pagina di DFW o digressioni di Pynchon, con quel tocco folk dei roaring twenties, del ragtime. Strumenti ottici, mosaici così piccoli da esser visibili solo coi microscopi, una cappella con pitture di animali esoterici, ritratti di cani cosmonauti, modellini di roulotte, uova di formiche, topini impagliati su fette di toast, mille giochi di parole intraducibili. Vietato fare fotografie, vietato proprio usare il telefono dentro l’edificio. Sul tetto ti offrono il tè col samovar in un terrazzo pieno di tortorelle dal collare, e uccellini col becco rosso tra piante in vasi di bronzo. Un piccolo altare per un cane morto tra icone ucraine.

Forse per un europeo troppo amatoriale questa boutade così tangibile, ma che è davvero l’essenza barcollante del pioniere razionalista che costruisce la frontiera, il tentativo di creare la storia in una terra apparentemente vergine. Oltre a sfottere il dilettantesco wundercammerismo dei magnati urbani, quelli del petrolio e delle ferrovie, è anche tutta una frecciatina all’idea stessa di musealizzazione, di scienza come faro, di didascalia come verità, dello show and tell circense – venghino signori. Ma anche velato rispetto per i tentativi disperati di sbrogliare misteri, di costruire teorie bizzarre. E non poteva che essere qui un posto del genere, dove tutto è costante illusione, intrattenimento. La stessa facciata del museo sembra una parete degli studios, di una finta main street disneyana.