Amadeus (LaPresse) 

Morire per Ama

Amadeus via dalla Rai. Perché i retroscena ci sembrano sempre più attraenti del concreto mercato tv

Andrea Minuz

In un sistema vecchio, anche nell’età media dei suoi telespettatori, la concorrenza si gioca ancora sulla paludatissima tv generalista

Amadeus lascia la Rai”. Sparato a caratteri cubitali, sulle prime pagine di quotidiani e agenzie, con la solennità che si addice alle tragedie nazionali. Amadeus a Discovery che annichilisce l’“escalation” in medio oriente, i droni di Hezbollah, i missili di Putin, l’atomica, il blocco sunnita, le portaerei americane, tutto scaraventato in un angolino, in basso a destra. A Roma, quartiere Esquilino, già comparsi i manifesti per le adunate del 25 aprile: “Ci vediamo in piazza, spegni la Rai, non lo vedi che il fascismo è già qui”, con caricatura di Meloni, braccio teso, e farfalla simbolo della Rai che viene stritolata (sembra uno scherzo, è tutto vero, manca solo la “brigata Amadeus” che sfila fianco a fianco alla “brigata Ghali”, “From the Tiber to the sea Rai Uno will be free”). Insomma, uno psicodramma collettivo, come già con l’addio lacrimevole e disperato a Fabio Fazio, che pareva la fine di un’èra, il tracollo di una nazione, il tramonto di una civiltà. Questo paese a forma di magnifico scherzo ti ricorda sempre che il peggio potrebbe anche accadere, ma accadrà comunque altrove, lasciandoci intatto il primato nel cazzeggio e una qualche via di fuga onirica e visionaria dalla realtà (e così lunedì non si capiva più tanto bene se “in aggiornamento”, scritto in rosso sulle homepage dei giornali, fosse lì per la terza guerra mondiale o per un ripensamento del conduttore, uno stallo, una crepa nella trattativa, Ama torna, resta, non te ne andare).

 

Con Amadeus da settimane ormai si temeva il peggio, e il peggio è accaduto. L’ora fatale è scoccata. Entrava in scena il “settimo piano”, quello fatidico. Il settimo piano di Viale Mazzini è un pezzo fondamentale del nostro immaginario (si sale al “settimo piano” come al Quirinale; si dice “è stato visto al settimo piano”, di conduttori e giornalisti in trattative segretissime; un’entità metafisica che agisce come un personaggio a parte, “a preoccupare il settimo piano di Viale Mazzini è anche il taglio del canone”). È come il “settimo piano e mezzo” della Lester Corporation di “Essere John Malkovich”, un buco nero nella realtà. Forse al settimo piano c’è una porta segreta, come a Palazzo Grazioli. Si entra a Viale Mazzini, si esce direttamente sul Nove.

 

Lunedì non si capiva se “in aggiornamento”, sulle homepage dei giornali, fosse lì per la guerra o per un ripensamento del conduttore

     
Amadeus si aggiunge dunque ai nuovi martiri del servizio pubblico, Gramellini, Augias, Berlinguer, Lucia Annunziata, Fabio Fazio. Cacciati o costretti ad andarsene da una cattivissima Rai. Prima ancora di guadagnare di più, fuggendo via dalla Rai meloniana Amadeus si è infatti garantito l’ingresso nel pantheon di Repubblica, poi un giorno chissà anche uno spettacolo di Stefano Massini, “L’Italia secondo Ama”. Ecco allora dopo il tragico addio encomi, elegie, odi ad Amadeus, l’uomo, il presentatore, l’umile condottiero dei Sanremo “casamatta” della sinistra, spina nel fianco del governo. “C’è nel suo fare spettacolo il segreto di un gesto antico e tutt’altro che ovvio, il segno di una confidenza della televisione cosiddetta generalista con il paese reale”, scrive Rep. Un’Italia arcaica e millenaria che riaffiora con Amadeus. Un “gesto antico” che ritroviamo anche in un perfido video tirato fuori per dispetto qualche settimana fa, preso da un Festivalbar del 1996: lui che dà una scherzosa ma convinta pacca sul sedere ad Alessia Marcuzzi, sul palco, durante un trenino. Visto oggi ce n’era abbastanza per far partire la gogna, per togliergli tutti i programmi, per mandarlo via dalla tv, come Memo Remigi. Invece niente. Amadeus è al di sopra di ogni sospetto. Meglio così.

   

L’infanzia a Verona, gli inizi nelle radio e in discoteca. E’ un gran cavallerizzo: dai cavalli di famiglia a quello di Viale  Mazzini

  
Preso anche io da questa saudade collettiva per Amadeus che se ne va, mi sono immerso nelle tante agiografie uscite sui giornali in questi giorni. L’infanzia a Verona, gli inizi nelle radio e in discoteca, padre e zio maestri di equitazione, il fratello Gilberto direttore di una società ippica, e lui stesso, Amadeus, gran cavallerizzo. Dunque volendo anche tutta una predestinazione: dai cavalli di famiglia a quello di Viale Mazzini. Del resto anche Sanremo, come i meno giovani ricorderanno, era un tempo il regno dei cavalli: la gara era abbinata alle schedine Totip, Eros Ramazzotti tornò ai bordi di periferia a cavallo. Anni dopo Benigni entrava sul palco in sella a un cavallo bianco sventolando il tricolore, per la lezione sull’inno di Mameli, come una versione patriottico-risorgimentale della scintillante Bianca Jagger allo Studio 54. In una fenomenologia di Amadeus non possono poi mancare le giacche damascate, glitterate, tempestate di pietre preziose, come gli “smoking-gioiello” di Amadeus, ricamati con cristalli Swarovski, disegnati da Gai Mattiolo e assemblati da un’antica sartoria napoletana. “Amadeus sceglie smoking di cristalli e giacche di paillettes per entrare nel personaggio”, dice la sua personal stylist Maria Sabato. E in questo “entrare nel personaggio” c’è un po’ tutto Amadeus. La sua plasticità. La capacità di adattarsi a ogni format. A differenza di un Carlo Conti, per esempio, che trasforma tutti i programmi in una tombolata in famiglia della sterminata provincia italiana, Amadeus è molto più “zelig”. Un mutaforma.

     

I trattori a Sanremo, Amadeus che canta “Bella ciao”, Amadeus che si proclama antifascista. Bisognava scegliere da che parte stare: il 9

  

Una figura centaurica che conduce la trasmissione come fosse contemporaneamente in studio e sul divano davanti la tv (da qui la celebre “Amadeus-face”, occhio sbarrato, stupore, sbalordimento continuo). Perché il vero format è “Amadeus presenta cose”: i pacchi, “I soliti ignoti”, Sanremo, il capodanno a Matera, l’Arena Suzuki, o “Una serata di stelle per il bambino Gesù”. Ecco allora la naturale sintonia con questa terra antica di un presentatore che appare come l’ultima eco di Baudo (una versione Swarovski di Baudo). Un legame col territorio che è parso chiaro a tutti nella fatidica trattativa Amadeus-trattori, all’ultimo Sanremo, con lo spettro di una rottura con la dirigenza Rai che si è consumata proprio lì. Come si ricorderà, Amadeus fece di tutto per avere i trattori all’Ariston: “Nella mia vita ho zappato davvero, so anche guidare un trattore; la terra è estremamente importante, interessa molti lavoratori, i quali ora sono in difficoltà”. La cosa però si arenò. Ingerenze della politica. Sospetti. Telefonate di Meloni. Nel diluvio di ritratti che in questi giorni ripercorrevano vita, opere, conduzioni di “un professionista unico nel suo genere”, il momento dei trattori a Sanremo diventa allora una presa di coscienza anche politica (Amadeus che canta “Bella ciao” in conferenza stampa con Mengoni, Amadeus che si proclama senza remore, senza dubbi o tentennamenti, antifascista). Insomma, non si poteva più vivacchiare. Bisognava scegliere da che parte stare. E Amadeus sceglie il Nove. C’è anche una data di addio. Il 10 maggio andrà in onda l’ultima puntata di “Affari tuoi”. Fazzoletti pronti.


Amadeus via dalla Rai diventa – ma questo era ovvio – l’ennesimo caso politico da spolpare per settimane. Un generatore di retroscena e complotti e bavagli, secondo uno schema già visto all’opera con Fabio Fazio, con Augias, un po’ con tutti. Ecco quindi nel caso di Amadeus una serie di vessazioni che ora vengono a galla, e anche se sono tutte smentite dalla Rai, sono in effetti bellissime: pranzi obbligatori con Pino Insegno, una quota Hoara Borselli per Sanremo, una rentrée di Povia, forse anche la proposta irricevibile di un’Arena Suzuki a Colle Oppio, nella spelonca dei “gabbiani”, storica sede del Msi, lì dove Giampaolo Rossi parlava di Marcuse e Pasolini a una giovane Giorgia (questa ce la siamo inventata, però se poi la fanno rivendichiamo il copyright). C’è poi lo scenario del pendolare, altro dramma italiano e momento altamente deamicisiano del costume nazionale (con scene memorabili, come l’appello della bimba di Caltagirone contro la “Buona Scuola” di Renzi per la “deportazione forzata” della sua famiglia, costretta a trasferirsi a Firenze perché la mamma era diventata di ruolo).

 

Anche Amadeus, nonostante uno stipendio migliore degli insegnanti, si sarebbe quindi stancato di vivere e lavorare in due posti diversi, distanti, addirittura in due città, Roma e Milano, benché unite dall’alta velocità. Discovery l’avrebbe conquistato così. Con la promessa di acquisire i diritti (in scadenza) dei “Soliti ignoti” e portarlo a Milano, rendendo tutto più semplice, come nell’elegia del posto fisso di Checco Zalone, in “Quo Vado”, quando apre il portone di casa e dall’altra parte della strada c’è “l’ufficio provinciale caccia e pesca”, dove lavora come impiegato addetto ai timbri. Potremmo andare avanti, ma insomma il punto è che qualsiasi scenario e retroscenario è sempre più attraente della concretezza del mercato televisivo. Il più semplice “follow the money” da noi non basta mai. Allergici alla concorrenza, al mercato aperto, alla competizione, cerchiamo l’inghippo, le pressioni, la congiura, le trattative occulte, le telefonate a notte fonda, l’egemonia e la controegemonia. Se poi di mezzo c’è la Rai, si può sguazzare nel romanzesco più sfrenato. Amadeus che prova a capitalizzare al meglio il climax della sua carriera televisiva, come quei calciatori che finiscono in Arabia Saudita, o Amadeus che dice “la Rai ha fatto di tutti per trattenermi”, lasciando intendere “ma di là mi pagano di più”, non basta. Suonava del resto come un messaggio non troppo in codice l’annuncio che non avrebbe più fatto il Festival. Come dire, fatevi sotto, sto sul mercato, avanti.

 

Ma qui è una cosa difficile da accettare. E’ come se in ogni celebre dipartita dalla Rai morisse un po’ di posto fisso dentro di noi. Un’offesa, uno sfregio, una mancanza di rispetto all’eternità immutabile del tempo indeterminato del servizio pubblico. Insomma, al massimo si può andare a Canale 5, a Rete 4, a La7. Ma sul 9 è fuori dalla tradizione. Qui entra in gioco, appunto, il mercato globale. Una cosa a cui non siamo abituati, perché per anni abbiamo vissuto al riparo, chiusi nella bolla del duopolio Rai-Mediaset. Ora la concorrenza esiste davvero, e sta cambiando le regole del gioco. Perché né Rai, né Mediaset possono competere coi portafogli di grandi gruppi globali come Discovery.

  
Il fatto è che in un sistema televisivo vecchio, prima ancora che nelle idee o nei format proprio nell’età media dei suoi telespettatori, la concorrenza si gioca ancora sulla paludatissima, compassata e moribonda tv generalista. Col suo tracollo demografico, col suo sistema audiovisivo ancora poco dinamico e molto protetto, l’Italia presenta straordinarie possibilità di crescita per la tv lineare, altro che TikTok. Lo spiegava bene Alessandro Araimo, general manager di Warner Bros-Discovery, responsabile dei mercati di Italia, Spagna, Portogallo, in un’intervista della scorsa estate (che a saperla leggere parlava chiaro di quel che sarebbe successo col trasferimento di Fabio Fazio). “Sugli schermi di casa l’ascolto è fatto ancora al 90 per cento dai canali tradizionali: è lì quindi che vogliamo crescere nel medio termine”, diceva Araimo. E poi: “L’investimento su un fuoriclasse come Fazio avrà auspicabilmente un impatto immediato sugli ascolti e sulla raccolta pubblicitaria. Il contratto ha però una durata di quattro anni e risponde quindi anche a una logica di lungo periodo: accende un riflettore sul nostro portafoglio di contenuti, segnalando a spettatori e inserzionisti che Warner Bros–Discovery è in Italia per restarci e per crescere”. E in Italia si cresce al contrario. Puntando sul vecchio e il collaudato.

 

Cresce intanto l’isteria intorno a Sanremo. Girano interviste allarmanti al sindaco Alberto Banchieri, “al momento fino al Festival del 2025 c’è la convenzione con la Rai, poi chissà”. Gli italiani devono prepararsi a immaginare l’inimmaginabile: un Sanremo a Mediaset. Un Sanremo sul 9, però almeno con Amadeus (e Beppe Vessicchio che nel frattempo ha già dichiarato “se Amadeus dovesse chiedermi di seguirlo sul 9, direi subito di sì”). La situazione è fuori controllo. Nel quadrilatero Rai, Prati-Viale Mazzini-Settembrini-Vanni, ormai ci si saluta senza sapere più se ci si rivedrà ancora, “e insomma che fai quest’estate? Mi sa che vado al 9”. E allora si costruisce un fortilizio intorno a Fiorello. Una linea Maginot. Proteggere con ogni mezzo l’ultimo asso rimasto. Salvare i gioielli di famiglia. Fermare Fiorello è ora una priorità del governo. Per fortuna vive a Roma, e la trasmissione se l’è fatta mettere proprio sotto casa (come Checco Zalone). Si può insomma stare sereni. O forse no. Chissà. Warner-Bros Discovery potrebbe anche costruire una Fiorellolandia con studi televisivi incorporati, alle pendici di Monte Mario, a Roma nord, e allora addio.

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