Il malinconico mondo di Game of Thrones

Edoardo Rialti

Nell’ultima stagione del Trono di Spade a morire è stata la nostra fame di scacchiere semplificanti

Fuoco e sangue. E cenere. È in mezzo a questa lugubre aggiunta al motto di Casa Targaryen che si aggirano i sopravvissuti alla distruzione di Approdo del Re, scatenata da Daenerys e il suo drago nel penultimo episodio del Trono di Spade. Con l’ottava stagione si è definitivamente concluso un ciclo che dal 2011 ha fatto incetta di premi e pubblico, coincidendo con la nuova età dell’oro delle serie tv, un cortocircuito immaginativo che corrisponde a un altro evento spartiacque di un decennio prima, l’adattamento cinematografico a firma di Peter Jackson del Signore degli Anelli. La versione HBO del mondo fantasy inventata da chi Zimmer Bradley definì il “Tolkien d’America”, G. R. R. Martin, è divenuta progressivamente un fenomeno mondiale capace di coinvolgere un pubblico immenso e variegato; al pari di altri miti contemporanei, le sue immagini ed espressioni sono entrate nel vocabolario comune, e vengono addirittura branditi da partiti politici e staff comunicativi delle presidenze americane o dei generali iraniani.

 

Oltre un milione di persone hanno persino sottoscritto una petizione per riscrivere l’ultima stagione e il suo finale (come se anche le creazioni artistiche potessero essere sottoposte alla pseudo democrazia del web). Uno dei punti di forza dei romanzi, e di riflesso dello show, era la minaccia sempre possibile, sempre pendente del proverbio valar morghulis. Tutti gli uomini devono morire. Anche i protagonisti amati, anche i buoni che in una narrazione hollywodiana sopravvivono e trionfano. E in quest’ultima stagione a morire è stata proprio la nostra perenne fame di scacchiere semplificanti. Anche chi dichiarava di non sostenere esplicitamente una parabola rassicurante, al pari del cinico nano Tyrion era rimasto conquistato da un percorso così luminoso come quello di Daenerys, la principessa cavalca-draghi che dal suo esilio era tornata liberando schiavi e oppressi, assommando i destini dell’Anastasia Romanov leggendaria e un Mosè o Malcom X.

 

Invece, dopo il tanto profetizzato confronto con gli Estranei e i non-morti (al netto della potenza visiva, certamente la parte più debole… non si torna dal confronto con l’Ade così sostanzialmente immutati come avviene per i protagonisti) è proprio la Spezzatrice di Catene che, ferita e angosciata nel vedere che la propria leggenda dorata non attecchisce anche da questa parte del mare, a scivolare tragicamente e distruggere la propria immagine ideale, costruita tra tante decisioni e prove difficili. Oderint, dum metuant, sentenziava già un frammento di Ennio. Mi odino, purché mi temano. Al netto di taluni elementi eccessivamente raffazzonati e sbrigativi, questo terrificante salto quantico, questo compiere improvvisamente ciò che era stato l’ultimo delirio di un padre tiranno che si voleva in ogni modo esorcizzare, funziona, ha il sentore inesorabile delle cose vere. Spiegarlo vuol dire ridurlo, e giustamente la dinamica di violenza gratuita sugli inermi viene riflessa anche “in basso”, con l’esercito dei valorosi uomini del Nord che a sua volta si abbandona allo stupro e al massacro.

 

Ghiaccio e fuoco si sono alleati fuggevolmente, ma il sogno tanto vagheggiato assume i toni di un incubo, ed è proprio “Romeo” ( quel Jon Snow la cui identità è stata lungamente celata, e che al pari di Daenerys era stato un leader capace di vedere soluzioni terze laddove tutti scorgevano solo opposizioni popolari tra i popoli da questo o quel lato della Barriera) a uccidere “Giulietta”, con un bacio/pugnalata, disperandosi assieme all’ultimo drago, che potrebbe ucciderlo per vendicare sua “madre” e invece riversa il suo fuoco sul vero assassino, il feticcio di potere inseguito da tutti per otto stagioni, quel Trono di Spade che, al pari dell’Anello di Tolkien, si fonde.

 

Occorrerà leggere gli ultimi due libri tanto attesi (siamo dinanzi al caso più unico che raro di un adattamento che precede l’adattato) per scoprire se anche Martin ci offrirà la medesima conclusione, magari per vie assai più traverse e intricate. Il momento più esplicitamente metaletterario (dopo l’elogio sul potere unificante delle storie) è proprio la constatazione che il monarca eletto dai superstiti è una soluzione che non piace a nessuno, il che probabilmente costituisce un buon compromesso. Gli eroi e il mito da essi ridestato sono morti, scomparsi o svuotati di significato, e restano solo i vecchi e i giovani ad avanzare in un mondo che, depositate ceneri e neve, resta malinconicamente grigio. Una soluzione che ti coglie alla sprovvista, ti ferisce nell’orgoglio per poi farti ammettere che la vita è fatta di questa stoffa. “Ecco che ho detto ciò che volevo dire questa volta. Ma un dubbio penoso mi opprime. Forse non bisognava dire queste cose, forse ciò che ho detto è una di quelle tristi verità che si celano inconsciamente nell’animo di ciascuno e che non devono esser tratte fuori per non far del male, come la feccia del vino, che non si deve agitare per non guastarlo. Dov’è l’espressione del male che bisogna fuggire? Dove l’espressione del bene che bisogna imitare in questa novella? Qual è l’assassino, qual è l’eroe? Tutti son buoni e tutti cattivi.” Sono parole di Tolstoj.

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