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Social

TikTok dà dipendenza, serve la lente della semiotica per spiegare come

Giulio Silvano

Il flusso infinito di contenuti sul social cinese attira utenti per oltre un miliardo e sei. Un saggio spiega il fenomeno con approccio accademico anche a chi non conosce la piattaforma

Era dal ping pong e dalla polvere da sparo che qualcosa di cinese non si affermava nel mondo con questa prepotenza. TikTok, social-piattaforma di condivisione video costruita intorno agli smartphone, arrivato sette anni fa, è il social preferito della Gen Z. Sono gli zoomer, quelli nati tra il 1997 e il 2009 che oggi si laureano ed entrano nella workforce. Si parla soprattutto di TikTok per la dipendenza che può dare, quella schiavitù dell’algoritmo che ci conosce meglio di nostra madre e che provoca la produzione di serotonina meglio di un carboidrato fritto. E poi quelle tiritere da clickbaiting, sui nuovi trend, le challenge e i balletti, soprattutto quelli mortali, che ai boomer (ma ormai anche alla Gen Y) piace tanto criticare negli editoriali. O paginate intere sui booktoker su Robinson, con commento di Corrado Augias, e via così. Il Cav. aveva proposto che si chiamasse TikTokTak. E se ne parla anche perché qualcuno vorrebbe vietarlo, e c’è chi l’ha fatto, come il governatore del Montana. E se i cinesi lo usano per spiarci? Si chiedono a Washington. Perché i nostri social non sono altrettanto addictive? Si chiedono nella Silicon Valley.

Per capire i meccanismi di assuefazione, e molto altro, è uscito un libro, il primo che studia il fenomeno con la lente accademica della semiotica, dei media studies e della sociolinguistica. TikTok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial, edito da Hoepli e curato da Gabriele Marino e Bruno Surace è un po’ un TikTok for dummies highbrow, un TikTok spiegato bene con un inquadramento teorico invece che funzionale. TikTok “come un hamburger del fast food, è allo stesso tempo un agglomerato potente di istanze culturali, ma così ben ordito da far sì che in pochi se ne avvedano, e in molti si limitino a consumarlo avidamente”, dicono i curatori. 

In uno dei saggi del libro, la semiologa Bianca Terracciano spiega come TikTok segni il passaggio dall’immagine al video, da quelle belle foto di Instagram di tramonti alla ripresa amatoriale senza necessità di estetizzare. Perché il video, scrive, “serve a rappresentare al meglio la forma di vita di riferimento, a costruire un legame con la comunità di follower”, dato che hanno “sempre una struttura narrativa, seppur frammentata”. Uno storytelling che viene assemblato con colonne sonore e filtri ricorrenti e sempre uguali, e che si basa non su quello che si racconta ma sul come. “La realtà viene raccontata non a partire dalla sua peculiarità, bensì ripercorrendo una struttura, un modo di comporre il testo considerato efficace perché tematizzato a priori”. E poi, ingrediente necessario per l’assuefazione, è la brevità. Come quel meme che dice: “Non ho tempo per un film di un’ora e mezzo, allora mi guardo sette puntate di The Office una dietro l’altra”, siamo attratti dall’illusoria stringatezza dei contenuti, che però accumulati uno dietro l’altro, come le ciliegie, riempiono ore e ore. Ecco l’infinite scrolling, buco nero della socialità sui mezzi pubblici. 

Ma come nota la film scholar Angela Maiello, l’unicità del social cinese sta anche nell’assenza di una cornice intorno ai video, non c’è la mediazione di accesso ai contenuti data dai profili dei singoli come invece succede negli altri social. In pratica TikTok “elimina quei segni che avevano caratterizzato prima la nascita del Web come ipertesto, e poi del Web 2.0 quale luogo di partecipazione orizzontale”. Un flusso infinito, nudo, continuo e immediato, che attira utenti per oltre un miliardo e sei, più degli abitanti dell’India, e altrettante alzate di sopracciglia da chi non lo usa. Come noi, Gen Y pigri, che ne guardiamo i contenuti che finiscono comunque su Instagram. Ok, millennial.

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