Supporter al Campidoglio durante il processo al ceo di Tik Tok (Alex Wong / Getty Images)

Bando al futuro

Dalla bici a TikTok. Appunti per governare l'innovazione, invece di proibirla

Massimiano Bucchi

Oggi preoccupano i monopattini sharing, ieri era la tv a colori. Da sempre la politica prova a frenare l’arrivo delle nuove tecnologie, con tentativi più o meno di successo: come trovare un equilibrio nella via del progresso?

“Ogni nuovo meccanismo, che entri nei congegni della vita umana, aumenta le cifre e le cause della delinquenza come della pazzia”. Non si sta parlando dello smartphone, né di ChatGPT, ma della bicicletta! Nel 1900, il medico e criminologo Cesare Lombroso (1835-1909) firmò un violento attacco contro “il biciclo”, identificato come “causa e stromento [sic] del crimine”. “L’uso diffusissimo di una macchina di un certo valore così facilmente esportabile, in ispecie da quelli che sono più agili, è un incentivo ed una causa di appropriazione indebita e truffa”. Prima di ogni analisi sociologica e perfino prima di Schumpeter, Lombroso teorizza che differenti soggetti e gruppi sociali hanno atteggiamenti e gradi di apertura diversi rispetto all’innovazione. “Il criminale [...] all’inversa della comune degli uomini, è un neofilo [...] e perciò ha una passione più intensa per questo nuovo strumento, e ne sa cavare vantaggi particolari che gli altri né potrebbero né saprebbero [...]. Non ha, come certi professionisti, il prete per esempio, il magistrato, il medico, dall’uso dello strumento una fonte di possibile diminutio capitis, di danno alla professione, e non ha quella esitazione, quel ribrezzo che hanno gli uomini medi e specialmente le donne per uno strumento nuovo, entrato da poco (almeno in Italia) nelle abitudini sociali”.

 

Non risulta che il grido di allarme di Lombroso sia stato recepito dalle autorità italiane in termini di proibizione delle biciclette. Tuttavia sono molti i casi di tecnologie oggi date per scontate che al loro arrivo hanno incontrato una lunga e dura opposizione. In Italia uno dei casi più memorabili resta quello delle trasmissioni televisive a colori. La Rai aveva già fatto i primi esperimenti di trasmissione a colori già nel 1962, e negli altri paesi europei la tv a colori cominciò a diffondersi a partire da metà anni Sessanta. Tuttavia la politica italiana era fortemente ostile a questa innovazione. “Il paese scoppia, non riesce a risolvere i suoi problemi di fondo. E gli vorremmo dare la televisione a colori”, dichiarò in un’intervista il repubblicano Ugo La Malfa, promotore di un emendamento per rinviare l’introduzione del colore. Ma sulle stesse posizioni erano gran parte dei partiti e dei sindacati: “L’adozione della televisione a colori si muove in senso del tutto opposto […] alle esigenze del nostro paese”, dichiarò la Cgil. Sulla tv a colori si rischiò addirittura una crisi di governo all’inizio degli anni Settanta. Ma perché si temeva tanto questa nuova tecnologia? La preoccupazione principale era che la pubblicità a colori avrebbe spinto gli italiani al consumismo smodato, soprattutto di prodotti stranieri, e di conseguenza il paese alla bancarotta. L’opposizione era forte anche all’interno del Partito comunista, che vedeva nella tv a colori “un emblema di un tipo di sviluppo che è danno non solo ai lavoratori ma a tutto il paese e alla democrazia”; “chi l’ha detto che gli italiani sono tanto ansiosi di vedere un telegiornale a colori quando le bugie e la disinformazione saranno le stesse, se non peggiori, di quelle in bianco e nero?”.

 

Era contraria all’avvento del colore perfino la grande industria automobilistica, che temeva che l’acquisto di un nuovo televisore togliesse alle famiglie risorse altrimenti destinabili all’acquisto di una seconda automobile. Il 26 agosto 1972 Rosanna Vaudetti annunciò sul Secondo Programma la prima storica trasmissione a colori della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Monaco di Baviera. Ma fu un’illusione di breve durata, riservata peraltro ai pochissimi telespettatori che già possedevano un apparecchio a colori: si trattava infatti solo di una prova sperimentale, giacché non era ancora stato neppure scelto definitivamente se aderire al sistema tedesco Pal o al francese Secam. Così, a giorni alterni, le gare olimpiche vennero trasmesse con entrambi i sistemi, mentre con due televisori in ufficio l’allora Direttore generale Ettore Bernabei valutava le due opzioni. A metà anni Settanta tuttavia alcuni italiani le trasmissioni a colori le vedevano già aggirando il blocco italiano con una sorta di primitivo Vpn analogico, captando programmi a colori trasmessi dal Principato di Monaco, dalla Jugoslavia e dalla Svizzera italiana, dove la sagoma familiare di Mike Bongiorno comparve per la prima volta a colori nel 1975. Dopo numerosi rinvii e l’adesione definitiva al sistema Pal, il primo febbraio 1977 la Rai iniziò a trasmettere ufficialmente le prime trasmissioni a colori: il lungo ritardo ebbe pesanti conseguenze per l’industria elettronica italiana.

 

Ci sono state però modalità molto più creative per aggirare le restrizioni e accedere a tecnologie ufficialmente bandite. Nell’Unione sovietica del secondo dopoguerra, i dischi jazz e rock occidentali erano rigorosamente banditi, considerati alfieri della decadenza e dell’imperialismo americano. Pochissimi esemplari di contrabbando riuscivano a superare i controlli ma non bastavano a soddisfare la febbrile richiesta dei circoli underground e raggiungevano prezzi elevatissimi al mercato nero. Praticamente impossibile anche procurarsi la materia prima per duplicarli di nascosto in vinile. Come ha raccontato Francesco Brusco in una dettagliata ricostruzione, furono due giovani a importare dalla più tollerante Ungheria un metodo tanto artigianale quanto ingegnoso. Per evitare pericolosi incendi, infatti, gli ospedali dell’Unione sovietica erano obbligati a dar via le lastre sulle quali erano state impresse le radiografie. I due scoprirono che con macchine usate per registrazioni militari si poteva incidere la musica sulle lastre usate, ritagliandole poi in forma circolare.

 

Un buco al centro con una sigaretta, e via: erano nati i rëbra (letteralmente: “costole”), noti anche come rentgenizdat (da rentgen termine russo per indicare i raggi X in onore al loro scopritore, lo scienziato Wilhelm Röntgen, e izdat, pubblicare). Qualità sonora assai discutibile ma molto facili da imboscare sotto i vestiti e destinati all’autodistruzione come un messaggio in codice (dopo una decina di ascolti, infatti, non si sentiva più niente). Così i più indomiti appassionati russi riuscirono ad ascoltare di nascosto Elvis, i Beatles e gli Stones. Severe le pene per chi veniva sorpreso a trafficare con le lastre riciclate in disco: carcere e lavori forzati. La censura sovietica arrivò perfino a confezionare finti dischi di contrabbando in cui dopo pochi secondi di rock una voce interpellava l’ignaro contrabbandiere: “Pensavi di ascoltare la tua musica?”. Ma la censura sovietica nulla poté di fronte al successivo cambiamento tecnologico, ovvero l’audiocassetta, messa in commercio dalla Philips a partire dal 1963. Troppo facile da copiare e taroccare per gli ascoltatori; troppo difficile per le autorità controllare come venivano utilizzati i tanti registratori in circolazione. In un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista della comunicazione e con tecnologie sempre più portatili, bandirle diventa sempre più difficile. A lungo a Cuba i telefoni cellulari restarono ufficialmente fuori legge. Ma quando Raul Castro subentrò al fratello Fidel, nel 2008, dovette prendere atto del fatto che ormai esisteva un fiorente mercato nero della telefonia mobile. I cubani dovettero comunque attendere altri dieci anni per poter accedere a Internet direttamente dai propri smartphone. I cittadini cinesi, com’è noto, non hanno accesso ai social media più diffusi in occidente (YouTube, Facebook, Instagram, Twitter) né alle applicazioni di Google.

 

Insomma, la storia delle tecnologie bandite sembra perlopiù una storia di tentativi di controllo più o meno rigido da parte della politica che prova (con alterni successi) a rallentarne l’arrivo o a vietarne l’utilizzo. Ma naturalmente il discorso è ben più complesso. Recentemente si è discusso molto allorché il chatbot ChatGPT è divenuto inaccessibile dall’Italia a seguito dell’intervento del Garante della privacy (ora il servizio è di nuovo accessibile a seguito di nuove misure introdotte dall’azienda a tutela della privacy). Negli ultimi tempi anche TikTok, la piattaforma di condivisione video (di proprietà dell’azienda cinese ByteDance) con oltre un miliardo di utenti nel mondo, è stata oggetto negli ultimi mesi di numerose restrizioni da parte di istituzioni governative e internazionali  che hanno ordinato ai propri dipendenti di disinstallare l’app di TikTok dai dispositivi di servizio. Negli Stati Uniti, la Casa Bianca ha dato trenta giorni di tempo per eliminare TikTok. Lo stesso hanno fatto il governo e il Parlamento inglese, quello canadese, australiano, neozelandese e la Commissione europea. Negli Stati Uniti, tuttavia, non ci si ferma ai dipendenti governativi. Una recente iniziativa legislativa repubblicana propone che il presidente vieti di installare l’applicazione anche su tutti i dispositivi privati, sulla falsariga di quello che è già avvenuto in questi giorni in alcuni stati americani, a cominciare dal Montana.

 

Da tempo TikTok è criticata perché considerata poco attenta alla privacy degli utenti e alla tutela degli adolescenti: varie inchieste hanno dimostrato come i vincoli di età non siano rispettati, esponendo anche più piccoli a video potenzialmente pericolosi. Tuttavia la preoccupazione più importante riguarda in particolare la sicurezza nazionale. Il timore è che i dati sensibili relativi agli utenti, tra cui la loro posizione, possano essere condivisi con le autorità cinesi come peraltro la legislazione cinese prevede. Un’altra preoccupazione riguarda la possibilità che l’algoritmo proponga agli utenti con maggiore frequenza contenuti e interventi favorevoli alle strategie politiche cinesi. La posizione dell’azienda cinese è invece che le istituzioni americane vogliano in questo modo azzoppare un concorrente sempre più temibile per i social media americani, in particolare quelli di Meta (Facebook e Instagram). Ma se vietare l’uso di un’applicazione su dispositivi di proprietà del Governo non presenta particolari problemi dal punto di vista legale, alcuni studiosi sono piuttosto critici sulla possibilità di bandire completamente l’applicazione in quanto limitazione della libertà di espressione.

 

E poi tecnicamente come si farebbe a controllare che gli utenti effettivamente la disinstallino? Apple (fatto di per sé abbastanza inquietante) è teoricamente in grado di rimuovere applicazioni dagli iPhone degli utenti, ipotesi ritenuta però piuttosto improbabile. Il problema non si pone in Cina, dove TikTok non è mai stata disponibile. L’impatto di bandi e proibizioni su una tecnologia può essere più o meno rilevante, così come le relative implicazioni. Alcune tecnologie, come i dischi in vinile, riescono a divincolarsi e sopravvivere. Per altre invece le proibizioni contribuiscono al loro fallimento. Fu proprio quest’ultimo il caso dei Google Glass, gli occhiali smart lanciati nel 2013 da Google con grandi aspettative. Furono da subito banditi da cinema e teatri (per il timore che fossero usati per registrare video) e dai ristoranti (per evitare violazioni della privacy). Le forze dell’ordine sanzionarono chi li indossava mentre guidava l’auto, ritenendoli potenziale fonte di distrazione e incidenti. Queste limitazioni contribuirono a decretare il fallimento di questa tecnologia firmata Google.

 

La proibizione di una tecnologia può avvenire su base nazionale, ma anche su base locale. Oggi, infatti, molte grandi città si trovano a fare i conti con gli effetti indesiderati di un’altra innovazione: il monopattino elettrico a noleggio. La diffusione incontrollata di questi servizi, dapprima salutata come innovazione benefica per la riduzione del traffico automobilistico e come forma di condivisione di servizi, ha rivelato presto il suo lato oscuro: violazioni al codice della strada, abbandono selvaggio dei monopattini sui marciapiedi, incidenti anche mortali. Perfino l’inventore del moderno monopattino leggero e pieghevole, lo svizzero Wim Ouboter, si è espresso negativamente contro lo sharing improvvisato “mordi e fuggi”: “Nessuno dovrebbe immettersi nel traffico senza aver fatto pratica davanti casa o in una zona tranquilla per sperimentarne il comportamento, come segnalare la svolta con una mano sul manubrio, frenare, come reagisce in curva”. In effetti secondo uno studio condotto dalle istituzioni sanitarie americane, un terzo degli incidenti in monopattino coinvolge persone che lo usano per la prima volta, e un altro terzo coinvolge utenti che lo hanno usato meno di dieci volte. Numerose città, da Barcellona a Stoccolma a Copenaghen, sono corse ai ripari introducendo regole e limitazioni per l’utilizzo di questi veicoli. A Parigi, dove ne circolano almeno 15.000, un referendum tra i cittadini ha sancito a stragrande maggioranza (seppur con affluenza piuttosto bassa) il loro totale divieto. “Dal primo settembre non ci saranno più monopattini a noleggio”, ha dichiarato il sindaco Anne Hidalgo, “questa è una vittoria per la democrazia locale”. Altre città seguiranno l’esempio di Parigi? Si svilupperà un mercato nero dei monopattini a noleggio? Sarebbe interessante sentire l’opinione di Lombroso.

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