Un illustrazione di un tezos coin, criptovaluta che sfrutta la blockchain (foto Unsplash)

Il Web3 è di chi ha i soldi non degli utenti. La denuncia di Mr Twitter

Pietro Minto

Un fan del crypto se la prende con l’internet del futuro: ma non erano la stessa cosa? Due mondi diversi e complessi

E’ passato meno di un mese da quando Jack Dorsey, cofondatore di Twitter, ha lasciato il social network per dedicarsi a tempo pieno a Square, la sua azienda di pagamenti digitali, che ha prontamente ribattezzato “Block” (in onore della blockchain). Nel pieno di questo riassetto generale, martedì scorso Dorsey ha anche trovato il tempo per dare qualche colpo al sogno del Web3: “Non possiedi il Web3”, ha scritto su Twitter:  “I Venture Capitalist (VC) e i loro partner lo possiedono”. Il Web3 “non è altro che un’entità centralizzata con un’etichetta diversa”.

Queste parole hanno scosso il settore, perché non provenivano dai soliti cripto-scettici che se la prendono con la speculazione in corso tra valute e Nft (tra questi anche Brian Eno: “Con gli Nft anche gli artisti possono diventare piccoli stronzi capitalisti”). A firmarle era uno degli artefici della decentralizzazione, un alfiere dei Bitcoin. Insomma, un fan del crypto che se la prende con il Web3: ma non erano la stessa cosa?

La polemica si fonda proprio sulla differenza tra due mondi diversi e complessi, spesso descritti come fossero la stessa cosa. Per crypto si intende un insieme di tecnologie rese possibili dalla blockchain, il network decentralizzato e autonomo su cui si basano Bitcoin e altre criptovalute. Un grande archivio che promette trasparenza e affidabilità, senza padroni e hub centrali: decentralizzato e libero, almeno secondo i suoi profeti. All’interno del marasma “crypto” troviamo le già citate criptovalute, gli Nft (certificati di proprietà che vanno forte tra gli artisti) ma anche le Dao, organizzazioni decentralizzate che si danno un sistema di regole sfruttando gli stessi meccanismi della “catena di blocchi”. Qualunque sia il vostro parere riguardo tutto questo, non si può dire che questi strumenti non esistano. Cambieranno per sempre il mondo? Forse. Le Dao saranno le aziende del futuro? Lo vedremo. Però, esistono.

Il Web3, invece, è qualcosa di più vaporoso. A oggi non è che una frontiera che ancora non si scorge all’orizzonte, una direzione vaga verso la quale un manipolo di investitori, imprenditori e VC stanno gettando montagne di soldi da almeno un anno. Il solo Andreessen Horowitz, prestigioso fondo tecnologico, ha investito tre miliardi di dollari nel settore: l’obiettivo di a16z, come viene chiamato il fund, è di scoprire la terra promessa prima degli altri. Anzi, di costruirla direttamente. In questo ricorda la scommessa di Facebook con il Metaverse, altra tecnologia tanto sfavillante quanto (al momento) piuttosto teorica.

Così come a16z ha investito su tutti i principali player degli ultimi quindici anni (da Facebook in giù), ora vuole dominare il nascente Web del futuro – un mondo virtuale in cui  le principali buzzword del momento convivono beatamente: crypto, realtà virtuale, decentralizzazione, Nft.

L’attacco di Dorsey al Web3 non è quello di un hater qualunque, quindi, quanto di una personalità che sta cercando di separare i propri investimenti da quelli di a16z & Co. Facendolo, il ceo di Twitter ha denunciato anche quei VC che, invece di accompagnare l’andamento del Web, cercano di forzarne in qualche modo l’evoluzione: il progresso in vitro. Dorsey, barba lunga e t-shirt da fan dei Grateful Dead, si candida quindi a essere una figura carismatica del movimento crypto, di cui incarna l’animo tra il nerd e l’anarcoide.

L’ennesima polemica su qualcosa che non esiste ancora, insomma: forse la sintesi perfetta del 2021. A tal proposito, la giornalista Rebecca Jennings di Vox, nel suo riassunto dei “trend” dell’anno si è chiesta se questa continua ricerca del nuovo non sia la reazione “totalmente terrorizzata” di una classe di techies che ha visto un’app cinese, TikTok, polverizzare la concorrenza in poco più di un anno. “Questo spiegherebbe la copertura frenetica e unanimemente positiva di app come Clubhouse”, nota Jennings parlando del “pensiero magico” con cui i signori del digitale sembrano distrarsi, mentre il futuro si avvicina e non sembra più controllato del tutto dalla Silicon Valley. Il fatto che molti dei primissimi sostenitori (e investitori) di Clubhouse, app oggi dimenticata, si sia convertita al Web3, in effetti, non sembra un buon segnale.

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