La sede centrale di Google a Mountain View, California (Foto Ap)

Ci sono molte ragioni per accusare Google e Facebook, ma non quelle che pensate

Eugenio Cau

Il progetto Dragonfly e la censura di Trump

Roma. Delle molte accuse che sono piovute sulle aziende digitali della Silicon Valley nelle ultime settimane, quelle che hanno avuto maggior forza sui media e maggior rilevanza tra l’opinione pubblica sono le più triviali. Al contrario, le vere ragioni di preoccupazione spesso sono state tralasciate o travisate. Prendiamo per esempio l’idea, espressa dal presidente americano Donald Trump in una serie di tweet recenti, che Google utilizzi il suo algoritmo per censurare le opinioni dei conservatori. Questa accusa è stata smentita da Google e definita falsa da tutti gli esperti, ma continua a essere dibattuta. Ha trovato nuovo seguito questa settimana dopo che il sito sovranista Breitbart ha pubblicato il video di una riunione interna a Google all’indomani dell’elezione di Trump. Non è uno scoop: si sa di questa riunione da più di un anno, i giornali ne avevano già parlato. Ma è la prima volta che viene pubblicato il video completo. Vi si vede Sergey Brin, cofondatore di Facebook, dire che l’elezione del 2016 è stata “profondamente offensiva” per lui. Anche qui, nessuna sorpresa: Brin è un rifugiato figlio di rifugiati, accolto negli Stati Uniti mentre scappava dall’Unione sovietica, e non stupisce che abbia trovato offensiva una tornata elettorale in cui i rifugiati erano definiti come ladri e stupratori. Soprattutto, Sergey Brin è un noto finanziatore del Partito democratico americano: qualcuno se lo aspettava con indosso il cappellino del MAGA (Make America Great Again)?

Nonostante questo, il video è stato utilizzato per gridare alla censura delle idee conservatrici. Non c’è alcuna prova, se non il fatto ben noto che i grandi imprenditori tecnologici sono in gran parte favorevoli alle politiche liberal.

 

Ci si dimentica, al contrario, che Google ha pronto un progetto di censura sistematica, su larga scala, che vorrebbe coinvolgere 1,3 miliardi di persone. E’ il progetto Dragonfly, è stato svelato dai giornali ad agosto ed è il tentativo del motore di ricerca di rientrare in Cina dopo otto anni di assenza, con una versione censurata e sottomessa ai dettami del Partito comunista cinese.

 

Mentre Trump sbraitava dalle piattaforme web sulla censura delle piattaforme web, Google aveva preparato un piano segreto per fare in modo che, presumibilmente, un utente cinese che avesse cercato “piazza Tienanmen” non avrebbe trovato nessuna informazione del massacro avvenuto nel 1989. E’ questo il vero scandalo censorio di Google – peccato che sia sfuggito alla gran parte del dibattito politico americano.

 

Non è sfuggito però ai dipendenti di Google: ieri Buzzfeed ha scritto che sono già sette i dipendenti del motore di ricerca che si sono licenziati in protesta con il progetto Dragonfly. Uno di questi, un ingegnere senior che si chiama Jack Poulson, si è dimesso pochi giorni dopo la diffusione della notizia e ha detto a The Intercept che il problema non è soltanto la censura: Google vorrebbe concedere al governo cinese anche di tenere i dati degli utenti su suolo cinese, e questo significherebbe renderli vulnerabili ad attacchi e infiltrazioni.

 

Il progetto Dragonfly è in fase “esplorativa”: significa che non c’è niente di operativo, soprattutto perché manca l’assenso del governo di Pechino. Potrebbe ancora essere annullato, ma nonostante i licenziamenti degli ingegneri, nonostante il fatto che tutte le maggiori ong abbiano chiesto a Google di cancellare il progetto, nonostante una lettera di condanna firmata da 1.400 dipendenti, Google non ha ufficialmente ritirato Dragonfly. Entrare nel mercato cinese è troppo importante, specie se un’azienda vuole essere leader nel campo dell’intelligenza artificiale: per com’è adesso la tecnologia, la potenza del sistema dipende dalla quantità bruta di dati a disposizione, e 1 miliardo e trecento milioni di cinesi può mettere a disposizione un gran numero di dati.

 

Così, Google è pronto a rimangiarsi decenni di proclami sulla libertà e la sicurezza, a indebolire la propria posizione contrattuale di fronte ad altri governi autoritari e a trasformarsi in un censore della libertà d’espressione pur di continuare la sua marcia di espansione globale. E’ questo il problema che dovrebbe togliere il sonno a Trump, non le accuse di Breitbart.

E’ un po’ come con Facebook: tutti si lamentano di problemi triviali, mentre in Myanmar il social network è stato il facilitatore inconsapevole di un genocidio.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.