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Crocicchi #6

L'alchimista Andreazzoli ha rimesso Baldanzi al centro dell'Empoli

Enrico Veronese

È finito davvero l'avvio da incubo della squadra toscana? La vittoria contro la Salernitana è una cesura della stagione per gli azzurri

La grande storia, le piccole storie a corredo. Nella giornata del cavalcavia Osimhen, concomitante con l’infrasettimanale di campionato, il Napoli poteva veder sbriciolato in poche ore tutto il murales dipinto durante lo scudetto: la storia è nota, e comunque la si veda il rischio dello smarrimento – per ora scongiurato dalle convocazioni di Rudi Garcia, quindi dal campo – non è del tutto escluso a gennaio, considerati i malumori già espressi per una convivenza insospettabilmente ingombrante. Sarebbe stato – e potrebbe ancora essere – lo svincolo capace di determinare un campionato, altro che una partita singola.

Ma la grande storia delle infrastrutture stradali, almeno stavolta, lascia il passo alle vicende dei quadrivi periferici, là dove il lavoro dell’uomo ha il valore del faber suae ipsae fortunae: Empoli-Salernitana non è, alla sesta giornata, una partita in grado di indirizzare già il torneo, ma può comunque dare un senso a ciò che sarà il cammino delle due squadre. Gli azzurri padroni di casa vi arrivano senza aver mai vinto né pareggiato: di più, senza avere mai segnato un solo gol da ferragosto in qua, tra imbarcate epiche e sfortunate resistenze. In panchina, il nonno Aurelio Andreazzoli è tornato a farsi voler bene dai propri calciatori, in luogo del già promettente Paolo Zanetti, che dopo una stagione andata a buon fine (con più di qualche merito, specie nel lancio dei giovani) si era messo a giocare al piccolo alchimista, senza avere il physique du rôle per comportarsi da sergente di ferro. Un po’ come certi sindaci tronfi, sempre di periferia, quando si sentono pervasi da un’aura intoccabile nei network.

A fare le spese degli esperimenti stagionali allo stadio Castellani, tra gli altri, proprio quel Tommaso Baldanzi che a diciott’anni era stato investito dei galloni da titolare, presto remunerati da prestazioni e concretezza: tanto da vedere in lui, giovane fantasista antico, il futuro del miglior pallone italiano. Dopo un’estate ad aspettare offerte alla finestra, qual Raperonzolo coi suoi capelli, l’atleta di Poggibonsi era rimasto al castello con la certezza di dover aspettare solo un anno – il presente – prima di spiccare il volo sognato. Ma Zanetti, in preda alla sindrome di Massimiliano Allegri (cambiare tutto per non cambiare niente), nel ritiro tirolese abbandona il modulo 4-3-1-2 – marchio di fabbrica nel centro della Toscana fin dai tempi di Maurizio Sarri, Marco Giampaolo e Alessio Dionisi – per darsi al modaiolo 4-3-3: che è tutto, tranne uno schema offensivo. A farne le spese, manco a dirlo, Tommaso: spaesato all’ala, ora di qua, ora di là, costretto entro abiti impropri. Non fa per lui calpestare poche zolle e partire in linea col centravanti: il totem Francesco Caputo, perché nei momenti gravi in Italia ci si appiglia spesso a chi vanta glorie eterne.

In piena estate, l’eliminazione dalla Coppa Italia per mano del Cittadella di Serie B, poi appunto le cinque sconfitte consecutive e il cambio alla guida: si torna alle certezze. E l’Aurelio, celebrato dal marchio nominale sopra la finta di Rodrigo Taddei, come Garcia ricolloca la chiesa al centro del villaggio: soccombe alla magna Inter solo per un prodigio di Federico Dimarco, e gioca le sue carte di riscossa nell’impegno interno contro l’altrettanto precaria Salernitana. Prima del match, a chi glielo chiedeva in sala stampa, rispondeva: “Baldanzi va lasciato libero, gli vanno tolte le briglie”. Detto, fatto. Alla metà esatta del primo tempo è colto di sorpresa da un calcio d’angolo dell’altro baby boom Jacopo Fazzini, e non riesce a correggere di testa, liberatosi da solo davanti alla porta spalancata; ma dieci minuti più tardi raccoglie una sponda di Stiven Shpendi (freschezza, altro che pane liquido) quando è ancora nella sua metà campo, da perfetto numero 10 con la maglia 35 a due tocchi lancia in profondità Matteo Cancellieri che s’invola e si allarga, lui sì, da ala qual è.

Mentre tutta la difesa campana è ipnotizzata dai movimenti di quest’ultimo, Baldanzi taglia rapidamente al centro dell’area, non visto dai radar granata: il colpo è da rapace, i punti sono tre, la fiducia è tornata alle stelle. Lancio da regista avanzato, gol da trequartista moderno: la storia ancora contenuta di Tommaso Baldanzi è quella dell’unico rifinitore italiano di prospettiva, e già di solido presente. Il provvido e tempestivo avvicendamento in panchina gli ha riconsegnato le chiavi del gioco d’attacco: in fondo otto mesi trascorreranno veloci prima delle nuove lusinghe. Ci aveva provato in extremis la Fiorentina, dove avrebbe riaperto l’equivoco tattico nella concezione di Vincenzo Italiano: perché Baldanzi, nuovo eppure antico, soffre l’emarginazione a latere, il compito preciso. Deve vedere tutto il panorama davanti a sé per decidere dove andare e dove recapitare la palla, meglio con due punte di riferimento. E se a Firenze piace, come piace a tutti i commissari tecnici da bar Italia, è perché con quella maglia il miglior esempio di vero “dieci” nazionale ha vinto pure un mondiale: in fondo, ogni generazione ha diritto ad avere il proprio Antognoni.

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