Jhonatan Narváez ha vinto la prima tappa del Giro d'Italia 2024 (foto LaPresse) 

Giro d'Italia

Il fermoimmagine dello stupore: a Torino vince Jhonatan Narvaez

Giovanni Battistuzzi

Sotto lo striscione d'arrivo della prima tappa del Giro d'Italia, sul volto del corridore ecuadoriano si è materializzato ciò che Brett Weston descrisse come “il massimo a cui un fotografo può ambire". Alle sue spalle si sono piazzati Schachmann e Pogacar

La sorpresa può deformare un volto, allargare e allungare i connotati, imporre a occhi, naso e bocca strambe conformazioni. Oppure può bloccare il viso, renderlo perfettamente fotogenico, bloccarlo nella posa migliore. Dipende dalle persone, dall’intensità dello stupore. 

In poche manciate di minuti lo stupore, misto alla fatica, ha bloccato il volto di Jhonatan Narváez in due pose diversissime, opposte. In cima all’ultimo strappo della prima tappa del Giro d’Italia 2024, il viso dell’ecuadoriano era paonazzo, gonfio di aria trattenuta e poi svuotato in un mento che si era allungato e aveva virato in modo deciso e assoluto verso destra, alla maniera di certi volti che appaiono e scompaiono tra le luci intermittente di una discoteca. Era riuscito, Jhonatan Narváez, a fare ciò che sembrava impossibile fare: lasciare solo pochi centimetri alla ruota posteriore di Tadej Pogacar. O, meglio, ciò che sembrava possibile per uno come lui, corridore buono per ogni terreno, ma non della stessa categoria, forse nemmeno natura dello sloveno. Uno stupore svuotato di ogni energia, totalmente deformato.

   

Tadej Pogacar e Jhonatan Narváez sull'ultima salita della prima tappa del Giro d'Italia 2024 (foto LaPresse)
    

Pochi minuti dopo invece uno stupore ancora maggiore ha bloccato il viso di Jhonatan Narváez nella sua posa migliore, dipingendo sul suo volto una fissità assoluta, una totale assenza di emozioni, “la realizzazione del massimo a cui un fotografo può ambire: riuscire a staccare completamente il sentimento dall’essere umano”, o almeno per il fotografo americano Brett Weston.

Per un attimo, pochi secondi appena, è stato così a Torino, su quella strada di Torino trasformatasi in arrivo della prima tappa del Giro. 

Levando le mani dal manubrio, drizzando la schiena perpendicolarmente sulla sella, Jhonatan Narváez si era reso conto di aver realizzato quello che era quasi impossibile poter solo immaginare di realizzare. Aveva attraversato per primo la linea d’arrivo. Aveva battuto tutti, soprattutto Tadej Pogacar, ossia colui il quale avrebbe dovuto vincere, perché questa era una tappa che sembrava perfetta per lui. 

Il racconto di questo Giro d’Italia, iniziato in medias res sulle colline che guardano dall’alto in basso Torino, doveva essere la storia rosa di Tadej Pogacar. Si è trasformata, almeno nell’incipit, in quella rosa di Jhonatan Narváez, come fosse un errore di trama bello quanto quell’acca nel posto sbagliato nel nome. Era d'altra parte la tappa della Maddalena, che altro non era che il monte prediletto per le fughe dalla città di Italo Calvino.

Forse durerà poco, forse terminerà già domani. O chissà, magari andrà avanti, magari per molti giorni. Il maggio delle biciclette è un mese di variazioni sul tema, un’improvvisazione continua di temi musicali che non si possono prevedere. Accelerano e rallentano, è un susseguirsi di assoli e polifonia. Poi, capita così sempre, arriva sempre qualcuno che sfascia questa cacofonia e impone la propria melodia. Capiterà anche a questo Giro d’Italia. Quando non è nostra facoltà saperlo. 

Tadej Pogacar spera di poter essere lui quel qualcuno. Correrà senz’altro per esserlo. Quello che ha capito oggi è che tutti faranno in modo di sfruttare la sua condizione di obbligato a vincere. Dovrà prendersi la responsabilità totale di inseguimenti ed evasioni, pedalare con la consapevolezza che chi gli riuscirà a prendere la ruota dalla sua ruota non si sposterà per nessuna ragione al mondo e che piuttosto di dargli una mano rischierà di perdere anche l’occasione di una vittoria. Tutto prevedibilissimo, la riproposizione perfetta di tante storie già andare in scena nel ciclismo. 

E viene da abbracciare uno a uno i suoi compagni di squadra, dare loro tutto l’affetto possibile, per cercare in un modo o nell’altro di confortarli per quello che gli toccherà: giorni e giorni e giorni a inseguire, a prendere vento in faccia, a cercare di rendere le salite inferno per tutti e poi, piano piano, guadagnare l’arrivo. 

Sarà per loro una faticaccia. E qualcosa, senz’altro sfuggirà loro. Magari anche più di qualcosa, magari saranno costretti a uno sciopero bianco, uno di quelli capaci di elevare una fuga a fugabidone, il più spettacolare e intricato tra gli espedienti narrativo-ciclistici che questo sport ha da offrire. 

I primi a intuire questa possibilità sono stati Louis Barré (Arkea), Lilian Calmejane (Intermarché), Nicolas Debeaumarché (Cofidis) Filippo Fiorelli (Bardiani), Amanuel Ghebreigzabhier (Lidl) e Andrea Pietrobon (Polti-Kometa). I loro destini ciclistici si sono uniti dopo nemmeno dieci chilometri dal via. Si sono divisi mano a mano lungo il percorso. Quelli di Lilian Camejane e Amanuel Ghebreigzabhier hanno pedalato uniti più a lungo, Lilian Calmejane ha addirittura pensato per un attimo che quella poteva essere una giornata sorprendente. Non è stato così, ma almeno c’ha provato, ma almeno domani pedalerà in gruppo con la maglia azzurra, quella del miglior scalatore. 

Che poteva essere una giornata sorprendente, ma negativamente l’ha pensato pure Domenico Pozzovivo. Poco prima dell’inizio della salita della Maddalena ha provato l’effetto che fa l’asfalto sulla pelle a questo Giro d’Italia. Si è alleggerito di qualche grammo di pelle, è risalito in bicicletta, ha inseguito per chilometri, è rientrato in gruppo a tre chilometri dalla cima. All’arrivo si è presentato in ritardo di 57 secondi. Tutto sommato, faticaccia a parte, poteva andare peggio. 

 

L'ordine d'arrivo e la classifica generale della 1a tappa del Giro d'Italia

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