Tadej Pogacar correrà il suo primo Giro d'Italia (foto LaPresse)

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Tadej Pogacar prova ad aggiungere l'Italia al suo mondo

Giovanni Battistuzzi

Il monarca del ciclismo al Giro per rendere perfetto il suo 2024 con una doppietta riuscita solo ai più grandi

Il monarca assoluto ha lo sguardo mite, il sorriso dolce e gentile e i modi di fare del galantuomo. Nel suo regno non c’è terrore, solo empatia, un’empatia sincera e amorevole, non di facciata. Quella basata sulla consapevolezza che non esiste alcuna differenza tra chi vince e chi no, che la bicicletta sia un’esperienza comune che mescola a tal punto gioia e sofferenza da rendere tutti parte di un qualcosa di unico e inscindibile. 

Affascina il monarca assoluto. Affascina a tal punto che nessuno lo vorrebbe vedere detronizzato, soprattutto ora che ha deciso di concedersi il Giro d’Italia e concedere la sua grazia in bicicletta al pubblico di una corsa che da anni è alla disperata ricerca del meglio che il ciclismo mondiale ha da offrire. E lui, Tadej Pogacar, è parte del meglio che il ciclismo mondiale ha da offrire. 

Tadej Pogacar è il grande favorito di questo Giro d’Italia (che parte oggi da Venaria Reale e si concluderà domenica 26 maggio a Roma), il nome dei nomi, forse l’unico su cui puntare. È l’uomo attorno al quale si concentrano, all’unanimità, le aspettative e le certezze di queste tre settimane di corsa. Lo vincerà lui questo Giro d’Italia, dicono più o meno tutti: dai suiveur, ai tecnici, fino agli avversari, senza i soliti tentennamenti tipici di chi sa che il ciclismo è sport strano, a volte strambo, capace di scombussolare qualsiasi gerarchia. E non per mancanza di altri buoni, ottimi, corridori nella lista dei partenti: lo sono per pedigree Geraint Thomas, Romain Bardet, Daniel Felipe Martinez, Thymen Arensman; lo sono per talento – attuale e futuro – Cian Uijtdebroeks e Florian Lipowitz. Lo è per manifesta superiorità. Quella dimostrata in questi anni. Quella dimostrata quest’anno, tra Strade Bianche, Volta a Catalunya, Liegi-Bastogne-Liegi: in dieci giorni in gruppo ha vinto sei volte (oltre alla classifica generale della corsa a tappe spagnola) e alla Milano-Sanremo è salito sul podio, terzo. 

C’è una silenziosa, spesso privata o quantomeno non del tutto manifesta, sensazione di piacere negli appassionati di ciclismo nel vedere andare a rotoli i piani dei più forti, di vedere gli antagonisti battere i favoriti. Una sensazione di piacere che però latita quando il grande favorito è Tadej Pogacar. 

Perché quello del corridore sloveno è un ciclismo violento eppure dolce, che riesce a tenere assieme scatti che sono mazzate per tutti gli altri e pedalate che sono un messaggio d’amore per la bicicletta e questo sport. È un ciclismo autoritario, che quasi non prevede diritto di replica, a meno che al suo fianco ci sia Jonas Vingegaard, l’unico che in questi anni ha dimostrato di essere alla sua altezza e, forse sulle tre settimane, anche più forte di lui. 

   

Tadej Pogacar durante la Strade Bianche 2024 (foto LaPresse)
     

È un ciclismo soprattutto intimo, quasi la solitudine del suo pedalare non sia solo l’evidenza dell’uomo solo al comando, ma una necessità di chi sa che ogni pedalata è qualcosa di più di un gesto fisico e meccanico, qualcosa di più di un tentativo di estendere un dominio sportivo: un modo di fare i conti con se stessi, un gesto d’amore verso se stessi, una gioia irresistibile e proprio per questo irrefrenabile. 

Soprattutto quest’anno. 

Perché Tadej Pogacar quest’anno pedala al Giro d’Italia spinto da quell’idea, spesso estemporanea, di fare la storia del ciclismo. Di rendere questo 2024 uno di quegli anni che ci ricorderemo a lungo, che tutti gli appassionati, anche quelli che verranno, ricorderanno a lungo. Tipo il 1949, o il 1964, o il 1970, o il 1982 o il 1987, o il 1992, o ancora, e nel nostro paese soprattutto, il 1998. Gli anni di Fausto Coppi, di Jacques Anquetil, di Eddy Merckx, di Bernard Hinault, di Stephen Roche, di Miguel Indurain, di Marco Pantani. Gli anni di quell’incredibile evento sportivo capace di avvicinare la Francia e l’Italia, di decretarne un’inattesa e non preventivata unione, di renderli parte di un’unica e meravigliosa storia che non prevede confini o nazionalismi. E di innalzare chi riesce in questa missione (quasi) impossibile a un livello superiore nella storia di questo sport. Perché vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno, anzi in tre mesi, non è solo una prova improba contro gli altri, è soprattutto una prova improba contro se stessi. 

Pochi giorni dopo la fine del Tour de France del 1961, in un’intervista a L’Équipe, Jacques Anquetil raccontò che “se la Grande Boucle è una sfida contro tutti i migliori ciclisti, nella quale serve essere il migliore tra i migliori, al Giro d’Italia non basta essere il più forte, serve avere anche la capacità di tenere a bada l’imponderabile”. Perché, spiegava il campione francese, “forse al Giro non ci sono tutti i migliori atleti in circolazione, ma c’è qualcosa che al Tour non c’è: la sensazione, forse la certezza, che arriverà l’imprevisto che la complica la corsa rendendola assurda”. 

E questo perché il Tour de France è una corsa di spazi, il Giro d’Italia è soprattutto una corsa di attraversamenti: è un susseguirsi di paesi, a volte piccoli, a volte grandi, a volte immensi perché diffusi e in successione. Tre settimane e ventuno giorni che sono una trappola continua. Non lo si gestisce il Giro, serve domarlo, cavalcarlo dal primo all’ultimo chilometro senza distrarsi nemmeno un secondo. 

Il Giro d’Italia è la miglior rappresentazione del nostro paese, senz’altro la più sincera. Riflette tutte le bellezze e i problemi dello stato nel quale viviamo e premia chi riesce ad adattarcisi meglio. Perché, in fondo, è proprio questa l’unicità della corsa rosa: anche i migliori corridori al mondo devono adattarsi a essa, nonostante tutti i tentativi della corsa di adattarsi a loro. 

Tadej Pogacar è un uomo sveglio, uno che non ha mai avuto problemi ad adattarsi alle corse, a cambiare piani, a ricostruire un canovaccio da seguire. È soprattutto un corridore che sa che il miglior modo per stare lontano dai guai è quello di avere il minor numero possibile di gente attorno. E il prima possibile. Gli organizzatori non aspettano altro che questo. Non vogliono altro che questo. Una ragione per poter credere che quello che abbiamo visto negli ultimi Tour de France possa andare in scena anche sulle strade del Giro d’Italia. 

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